Con la Ru486 abortire sarà una passeggiata ma chissà per dove
16 Dicembre 2008
Partiamo da zero. E senza alcun pregiudizio ideologico cerchiamo di capire cosa c’è dietro le polemiche scoppiate sulla commercializzazione della ormai famosa Ru486, la pillola dell’aborto facile. La notizia è dei giorni scorsi. L’Aifa, l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha dato il via libera anche nel nostro paese all’uso della pillola abortiva negli ospedali pubblici. E oggi anche il comitato tecnico scientifico ha dato il suo parere favorevole. Quella dell’agenzia (e del suo comitato tecnico) non è una sentenza senza ritorno, bisognerà attendere gennaio con la riunione del consiglio di amministrazione per avere una decisione definitiva. Anche se Guido Rasi, il direttore generale dell’organismo che sovraintende l’intera procedura di registrazione dei farmaci in Italia, conferma che la registrazione, nel caso specifico, rappresenta un mutuo riconoscimento, essendoci già stato un via libera da parte dell’agenzia europea. Quindi l’Europa ha già detto sì alla commercializzazione della Ru486. Perché allora non procedere anche in Italia?
Le questioni sul tappeto sono molte. Ma andiamo per gradi.
Innanzi tutto cos’è la Ru486? È un composto farmaceutico, due compresse per essere precisi, che consentono la prima (il mifepristone, la Ru486 vera e propria) di abortire l’embrione impiantato nell’utero entro la settima settimana di gestazione, la seconda (il misoprostol), da assumere dopo 3 giorni dalla prima, di indurre le contrazioni ed espellerlo. Niente interventi chirurgici, quindi, e niente anestesie, ma semplicemente una assunzione per via vaginale (o per bocca) di due pillole.
Teoricamente, ed è quanto accade in altri paesi, rispetto all’aborto “tradizionale” l’aborto fai da te non obbliga all’ospedalizzazione ed è quindi, almeno ad una prima impressione, molto meno invasivo. È una pratica che in molti paesi viene fatta addirittura a domicilio e che non richiede l’intervento di personale sanitario se non un controllo, da effettuare dopo quindici giorni dall’assunzione delle due pasticche, che verifichi che l’espulsione sia avvenuta e che l’utero sia svuotato.
E qui si apre il primo nodo della questione italiana. Il problema del “dove”. Nel nostro paese la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza consente di abortire esclusivamente all’interno di una struttura ospedaliera e sotto lo stretto controllo medico. Tanto che tutti coloro che si sono dichiarati a favore dell’adozione della pillola abortiva, a cominciare dall’ex ministro della Salute, Livia Turco, che avviò le procedure per la commercializzazione della Ru anche in Italia, hanno dichiarato che la Ru486 deve essere utilizzata nel rispetto della legge 194, cioè in ambito ospedaliero dove saranno la donna e il medico a decidere la metodica abortiva più idonea.
Questo vuol dire che la donna che ha deciso di interrompere la sua gravidanza ha l’obbligo di assumere i due farmaci abortivi in ospedale, e rimanervi fino a quando non si ha l’assoluta certezza della riuscita della “operazione”. Totale: 15 giorni. E qui iniziano i primi dubbi. Ammesso che il servizio sanitario nazionale sia disposto o in grado di sostenere un costo di tali proporzioni, nulla può vietare alla donna di firmare le sue dimissioni dopo aver assunto il farmaco espulsivo, in una fase, cioè ancora in atto di interruzione di gravidanza. E, volendo ampliare la gamma delle possibilità, nessuno può garantire che, data la facilità di assunzione del farmaco, ad un certo punto non venga consentito, al di fuori della legge, di mettere in pratica l’intera procedura a casa propria, autorizzando di fatto l’aborto domiciliare, che significa in altri termini rischiare di ripristinare la pratica dell’aborto clandestino combattuto dalla 194.
Eppure, dicono i favorevoli alla legge in nome del rispetto della libertà individuale e dell’affermazione del principio di modernità, la tutela della salute della donna deve venire prima di tutto, e poco importa se l’ultima fase dell’interruzione di gravidanza una donna che ha deciso di abortire se la vive a casa sua. Anzi. È un modo più agevole di vivere un evento traumatico. Ciò che conta è la consapevolezza dell’atto e per far questo basta un colloquio con un medico di fiducia. Quanto alle controindicazioni poi è tutto calcolato, del resto, il rischio che qualcosa non vada esiste anche con le pratiche abituali.
Niente da dire, se tutto filasse liscio come dicono gli ottimisti. Rischi calcolati minimi e un consenso informato che consente una piena consapevolezza dell’atto e delle sue conseguenze. Ma qui i dubbi si moltiplicano. E, prima di tutto, riguardano l’efficacia: solo nel 3-5 per cento dei casi la donna abortisce subito dopo aver assunto la Ru486 (da 4 a 20 giorni servono negli altri casi) e nel 5-8 per cento delle donne dovrà comunque ricorrere ad un intervento chirurgico per aborto incompleto o addirittura per l’interruzione di gravidanza. Aumentano quando si guarda alla questione consenso pienamente informato della donna che decide di abortire con la Ru486: se la legge 194 ha parzialmente fallito nel suo intento di aiutare le donne a non abortire, oltre che ad abortire, chi ci dice che lo stesso non avvenga anche per la Ru486? E poi si moltiplicano se si analizzano a raggio le implicazioni del ricorso all’aborto facile, perché la pillola abortiva presenta più lati oscuri di quanti se ne vogliano mostrare.
Primo lato oscuro: il secondo farmaco. Il misoprostol, quello che induce le contrazioni e l’espulsione dell’embrione abortito, è un farmaco contro l’ulcera, e che viene addirittura controindicato in gravidanza. Il suo utilizzo avverrebbe, quindi, come direbbero i tecnici, “off label”, al di fuori cioè delle finalità per cui viene prescritto, tanto che la casa farmaceutica che l’ha prodotto non è in grado di garantirne la sicurezza se utilizzato al di fuori del trattamento dell’ulcera. Potrebbe infatti provocare la rottura delle pareti uterine nonché malformazioni del feto se la pillola abortiva vera e propria non sortisce l’effetto sperato.
E poi i rischi reali: l’aborto con la Ru486 è di gran lunga più rischioso di quello tradizionale. È più doloroso, incerto e psicologicamente più devastante di quello praticato con altri metodi. Per non parlare dei casi estremi: le morti collegate alla assunzione di Ru486 sono arrivate ormai a 17 e, quel che è peggio, spesso non sono state denunciate dagli istituti di farmacovigilanza, ma da faticosi lavori d’inchiesta giornalistica o da singole persone interessate. E qui le storie raccontano molto di più di qualsiasi posizione ideologica.
Nadine Walkowiak muore in Francia l’8 aprile 1991, a trenta anni, per uno shock cardiovascolare poco dopo l’iniezione di sulprostone, una sostanza che negli anni Novanta veniva associata alla Ru486. L’azienda che produceva la pillola abortiva, la Roussel Uclaf, dichiarò che il sulprostone aveva già provocato la morte di tre donne.
Il 12 settembre 2001, muore Brenda Vise, a Chattanooga, nel Tennessee. Ha trentotto anni. Si reca nella Volunteer women’s clinic a Knoxville il 7 settembre. È incinta, vuole abortire e le propongono l’aborto chimico somministrandole la Ru486 e dicendole che gli effetti collaterali sono leggeri e durano poco. Le prescrivono il misoprostol da assumere a casa, e prendono un appuntamento dopo quindici giorni, per verificare che l’aborto sia avvenuto. “Tornata a casa, Brenda inizia ad avere problemi, e chiama più volte in clinica, ma le rispondono che i suoi sintomi sono "normali e di routine". Dopo 48 ore prende comunque il Cytotec, ma le sue condizioni peggiorano sempre più. I medici vengono informati che Brenda ha una temperatura al di sotto del normale, è pallida, ha forti dolori pelvici; le rispondono di non preoccuparsi perché questi sono sintomi abituali. Il 10 settembre Brenda ricoverata a Chattanooga, in un altro ospedale, dove le diagnosticano una infezione massiva per rottura delle tube, dovuta ad una gravidanza extrauterina non individuata. Dopo due giorni Brenda entra in coma e muore. La sua agonia in tutto è durate cinque giorni.
Nell’agosto del 2001 muore in Canada, allo una giovane donna di 26 anni. Aveva abortito chimicamente proprio durante la sperimentazione che avrebbe dovuto introdurre la Ru486 nel paese, ma sette giorni dopo la prima pasticca era tornata in ospedale con forti dolori addominali, vomito, perdite vaginali. Nonostante un trattamento massiccio di antibiotici e un’asportazione d’urgenza dell’utero, la donna muore dopo tre giorni dal ricovero. Dall’esame del tessuto uterino la causa delle morte risulta essere uno shock tossico dovuto ad una rara infezione da Clostridium sordellii. La sperimentazione viene bloccata e tuttora in Canada non si può abortire con la Ru486.
Rebecca Tell Berg muore il 3 giugno 2003, a Uddevalla, in Svezia. Ha sedici anni. Incinta di sette settimane, assume in ospedale il mifepristone, e due giorni dopo vi torna per la prostaglandina. La prende alle 8.25, di mattina, si sente subito male, è stanca, dorme fino alle tre del pomeriggio, quando inizia a perdere sangue e riceve un antidolorifico. Alle 16.30 viene rimandata a casa, dopo una massiccia espulsione di "materiale", con un appuntamento per il mese successivo, per la verifica conclusiva. Sei giorni dopo, il mattino del 3 giugno, Rebecca si sente a pezzi. Solitamente vive con la madre, ma quel giorno è a casa del suo ragazzo, Niklas, che le suggerisce di andare in ospedale. Rebecca non vuole: le hanno detto che le perdite dureranno almeno due settimane. Allora Niklas le prepara la colazione, ed esce. Quando torna, nel pomeriggio, trova la colazione intatta, e Rebecca morta, nella doccia.
Nell’agosto del 2003 la diciassettenne Holly Patterson scopre di essere incinta. Decide subito di non volere quel bambino, ma non lo dice a nessuno, tranne che al suo ragazzo. Il 29 Agosto Holly compie diciotto anni, e il 10 settembre va in una clinica dove prende il mifepristone. Tre giorni dopo Holly chiama in clinica, lamentando forti crampi: le prescrivono analgesici. Il giorno dopo il padre la trova a piangere sul pavimento del bagno. Ha pesanti perdite di sangue e non riesce a camminare. Le condizioni di Holly peggiorano sempre più, finché, all’una del mattino del 17 settembre, lei stessa richiama la clinica per chiedere se è possibile prendere altri analgesici. Le rispondono di andare all’appuntamento già prenotato nel pomeriggio. Holly sta molto male: ha nausea, vomito, non si regge in piedi. Alle quattro di mattina Ehsan la porta in ospedale, al reparto d’emergenza. Holly viene subito ricoverata in terapia intensiva. E’ in stato di shock settico. Holly muore venti minuti prima dell’appuntamento stabilito clinica in cui le avevano somministrato i farmaci abortivi. Le autorità sanitarie stabiliranno che Holly è morta dì shock settico per infezione da Clostridium Sordellii. Il padre non si rassegna, e ingaggia una lotta eroica e solitaria contro la pillola che ha ucciso la figlia: è soltanto grazie alle denunce e all’ostinazione di Monry Patterson che la stampa comincia a occuparsi delle morti da Ru486.
Il 23 dicembre 2003 Hoa Thuy Iran prende alla Planned Parenthood di Costa Mesa in California, la prima pasticca per abortire chimicamente. Dopo l’assunzione a domicilio del misoprostol, ha forti dolori addominali e vomito. Il mattino del 29 dicembre non risponde più agli stimoli e quando arrivano i medici non presenta più attività cardiaca o respiratoria spontanea. La morte viene classificate come un arresto cardiaco con una eziologia acuta "indeterminata". Ma il marito della donna, Charlie Nguyen, fa eseguire privatamente un’autopsia. La disposi finale sarà ancora una volta quella di shock settico dorato a un’infezione da Clostridium sordellii.
Il 14 gennaio 2004 muore Chanelle Bryant, a Pasadena, ancora in California. Ha ventidue anni, e cinque giorni dopo aver ricevuto il mifepristone, seguito dal misoprostol per via vaginale somministrato da sola, si è presentata al pronto soccorso con nausea, vomito, diarrea e forti dolori addominali, ma senza febbre. Il giorno seguente le sue condizioni peggiorano rapidamente, e si dà inizio a una terapia antibiotica, oltre ad effettuare una laparotomia che mostra un edema generalizzato e la presenza di un litro di liquido peritoneale. A quasi ventiquattro ore dal ricovero, la giovane muore per arresto cardiaco.
Il 18 gennaio del 2004 sul Sunday Telegraph si legge che, replicando a un’interrogazione parlamentare da parte di Jim Dobbin, presidente del gruppo parlamentare muitipartitico pro life, il ministro della Sanità inglese, Melanie Johnson, ha rivelato che dal 1991 sono state segnalate due "sospette reazioni fatali in associazione con l’uso del Mifegyne (la Ru488)". Non viene riferito nessun altro dettaglio sulle donne.
Il 14 giugno 2005 muore Orlane Shevin, giovane avvocatessa francese sposata a un americano e figlia di Didier Sicard, presidente del Comitato nazionale di bioetica francese. Ha trentaquattro anni e due bambini di tre e quattro anni, e vive a Sherman Oaks, sempre in California. Ha preso il mifepristone il 9 giugno e il misoprostol il giorno dopo, sempre per via vaginale. A tre giorni dall’assunzione della seconda pillola viene portata in ospedale con la solita sintomatologia: nausea, vomito e dolori addominali. Non ha febbre. La situazione peggiora velocemente, finché, dodici ore dopo il ricovero, muore.
I dubbi rimangono, insieme ad un interrogativo: se la Ru486 si deve praticare in ospedale, se è più doloroso e anche più rischioso per la donna dell’aborto tradizionale, se non è sicura la sua efficacia al cento per cento e ci sono donne che devono comunque sottoporsi all’aborto chirurgico, se si corre il rischio anche remoto di far tornare in voga l’aborto clandestino, se tutto questo e molto altro: a chi giova davvero commercializzare la pillola abortiva nel nostro paese? Speriamo che qualcuno possa risponderci.