Parla Netanyahu: “E’ l’Iran il padrino del terrorismo internazionale”
31 Gennaio 2009
È domenica mattina ed è da giorni che cerco di fare un’intervista all’ex e forse prossimo (se le cifre di cui gode nei sondaggi reggeranno sino alle elezioni del 10 febbraio) primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Ma è stagione di politica, questa, c’è una guerra in atto e alle mie chiamate non ho ricevuto alcuna risposta. Così, non avendo nulla di meglio da fare, decido di scendere nella palestra dell’albergo per fare un po’ di jogging.
E indovina chi ti trovo sul tapis roulant accanto al mio se non proprio lui, Benjamin Netanyahu? Chiacchieriamo per qualche minuto, soprattutto del cessate il fuoco appena dichiarato dal governo del primo ministro uscente Ehud Olmert e poi gli chiedo se è disposto a concedermi un’intervista più tardi nel corso della giornata. La risposta che mi dà sta a metà tra un “forse” e un “sì”. In ossequio alle costumanze del paese, lo prendo per un “sì” esplicito e mi metto a far pressioni sui suoi assistenti per organizzare l’incontro.
Quando finalmente l’intervista ha luogo, nella hall del vecchio King David Hotel, è ormai quasi l’una del mattino di lunedì. Netanyahu è reduce da una lunga cena con i leader europei in visita, tra i quali il presidente francese Nicolas Sarkozy, il primo ministro britannico Gordon Brown e il cancelliere tedesco Angela Merkel. Netanyahu è palesemente esausto e scherzando premette di non voler essere ritenuto responsabile di quel che potrà dire.
Il suo arguto commento non è necessario. Cosa rara per un’importante figura politica israeliana, il cinquantanovenne Netanyahu è un uomo incredibilmente eloquente – si potrebbe anche dire un po’ “alla Obama” – non soltanto nella sua lingua ebraica ma anche in quell’inglese privo d’inflessioni che ha imparato a scuola Philadelphia e, in seguito, quando ha studiato architettura al Massachusetts Institute of Technology. Come c’era da aspettarsi, quasi tutto quel che gli scappa dalla bocca è molto vicino alla sentenza lapidaria. Frasi come:
“Non penso che Israele possa accettare una base iraniana del terrore vicino alle proprie città più importanti. Non più di quanto gli Stati Uniti potrebbero accettare una base di al-Qaeda vicino a New York City”.
Oppure:
“Se dovessimo accettare il concetto che i terroristi avranno l’immunità perché mentre sparano sui civili si nascondono dietro i civili daremmo legittimità a una tattica del genere e i terroristi otterrebbero la loro più grande vittoria”.
O ancora:
“Proviamo tristezza per ogni bambino e per ogni civile innocente ucciso, tanto fra i nostri che fra i palestinesi. I terroristi danno una grande importanza a questa sofferenza. Alla nostra, perché ammettono apertamente di volerci uccidere tutti, e alla loro perché ciò li aiuta a nutrire e incoraggiare questa falsa simmetria. Una simmetria che è contraria alla comune decenza e alle leggi internazionali”.
E così via. La questione più immediata è ovviamente il cessate il fuoco unilaterale del governo israeliano, seguito qualche ora più tardi dalla dichiarazione di Hamas di un cessate il fuoco condizionato di una settimana. La guerra è stata una vittoria? Un pareggio? Oppure non ha portato a nulla consegnando così ad Hamas la “vittoria” che così a gran voce si attribuisce?
Quando sabato notte Olmert ha annunciato il cessate il fuoco israeliano faceva fatica a trattenere il sorriso. Secondo la sua valutazione, come secondo quella dei pezzi più grossi del suo esercito, Israele ha riportato una netta vittoria. Ha umiliato Hamas da un punto di vista militare, ha causato un’autentica frattura politica all’interno del gruppo. Da parte sua Israele può dire inoltre di aver subito relativamente poche perdite e di aver avuto successo nel concentrare l’attenzione della comunità internazionale sul problema del contrabbando di armi al confine di Gaza con l’Egitto. Poi, cosa ancor più importante agli occhi del governo Olmert, ha evitato la trappola di occupare nuovamente Gaza: l’unico modo, riteneva, per liberarsi di Hamas una volta per tutte.
I comuni cittadini israeliani, tuttavia, sembrano meno fiduciosi nel risultato, e Netanyahu dà voce alla loro cautela. Certo, è pronto e veloce nel dare il proprio plauso alla “brillante” performance delle forze di difesa israeliane nonché alla “forza e tenacia” dei civili israeliani sotto l’annosa pioggia dei razzi lanciati da Hamas.
Ma, aggiunge Netanyahu, “dobbiamo assicurarci che gli estremisti non percepiscano tutto questo come una vittoria”, e resta tutt’altro che sicuro che si sbaglierebbero a considerarla tale. “Nonostante i colpi subiti, Hamas è ancora a Gaza, e a Gaza comanda ancora. Senza contare che il “Philadelphi corridor” (il corridoio tra l’Egitto e la Striscia di Gaza) è ancora di fatto permeabile e… a meno che non sarà chiuso, Hamas potrà contrabbandare nuovi razzi da lanciare in futuro contro Israele”.
Ma allora Netanyahu ha preferenza per un cambio di regime a Gaza? “Beh, questo sarebbe stato il risultato ottimale”, afferma. E aggiunge che “il minimo risultato sarebbe stato impermeabilizzare Gaza” impedendo che missili e munizioni vengano contrabbandati al suo interno. E finora non è neanche chiaro se Israele abbia avuto successo almeno in questo. Un “Memorandum of Understanding” concordato la scorsa settimana da Israele, Stati Uniti ed Egitto potrebbe dimostrarsi efficace nell’arrestare il flusso di armi, ma questo presuppone che il Cairo si assuma le proprie responsabilità.
“Vien da sperare che lo facciano davvero”, commenta Netanyahu dando l’impressione di non essere troppo ottimista. Nel giro di qualche giorno le sue perplessità trovano una conferma in alcune riprese video diffuse dall’Associated Press nelle quali si vedono palestinesi mascherati che si spostano per i loro tunnel tornati ancora una volta funzionanti.
Tuttavia, più che cercare una soluzione che venga dall’Egitto, lo sguardo di Netanyahu è attentamente concentrato sull’Iran, un argomento che ha preso almeno una buona metà dell’intervista. L’Iran è il “regime madre” sia di Hamas, contro cui Israele ha appena combattuto una guerra, sia di Hezbollah, contro cui ha combattuto l’ultima guerra nel 2006. Insieme – afferma Netanyahu – costituiscono qualcosa di molto più che semplici spie dell’influenza di Teheran sulle coste del Mediterraneo.
“Se l’Iran si dotasse di armamenti nucleari si potrebbe pronosticare un processo irreversibile perché regimi di questo tipo finirebbero per assumere una sorta d’immortalità”, prosegue Netanyahu e spiega come la minaccia di un Iran nucleare rappresenta per il mondo una minaccia ancor più grave della crisi economica attualmente in corso. Un’eventualità del genere costituirebbe una minaccia diretta per Israele ma potrebbe anche fornire una copertura nucleare a quelle basi terroristiche”.
Come impedire allora che questo accada? Netanyahu accenna al fatto che si è incontrato con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sia in Israele che a Washington e che la questione iraniana “ha ampiamente predominato in entrambi i colloqui”. Chiedo se Obama ha dato l’impressione di essere adeguatamente sensibile alla questione. “Molto, davvero molto”, sottolinea Netanyahu. Obama “ha parlato dei propri progetti per far sì che all’Iran resti bene impressa la necessità di porre fine ai piani di arricchimento nucleare. Gli ho detto – aggiunge – che quel che conta non sono i metodi, ma gli obiettivi”.
Non è difficile credere che, tra tutti, Netanyahu debba augurare il meglio a Obama: se l’impegno diplomatico con l’Iran dovesse fallire e se gli Stati Uniti dovessero decidere di non fare ricorso alla forza militare, è quasi certo che proprio su Netanyahu finirà per cadere la responsabilità di decidere se Israele dovrà attaccare Teheran senza l’aiuto di nessuno. In un’altra intervista dello stesso giorno, un importante esponente militare mi ha assicurato che un attacco efficace ai danni delle strutture nucleari iraniane rientra abbondantemente nelle capacità militari d’Israele.
Dall’altro lato, un primo ministro come Netanyahu potrebbe anche, e con una certa facilità, finire per bisticciare con l’amministrazione Obama. In particolare se questa dovesse decidere di operare forti pressioni – come sembrerebbe suggerire la nomina dell’ex leader della maggioranza al Senato George Mitchell a nuovo inviato speciale nella regione – per la ripresa di ampi negoziati di pace che conducano al “final status”, la composizione definitiva del conflitto. Qui c’è già una storia: nel corso del suo primo mandato da primo ministro dal 1996 al 1999, Netanyahu si è frequentemente scontrato con l’amministrazione dell’uomo la cui moglie è al momento segretario di Stato.
Le ricette di Netanyahu per un accordo con i palestinesi – quello che lui definisce una “pace praticabile” – presentano marcate differenze rispetto agli approcci degli anni Novanta. Lui parla di “sviluppo di forze di polizia esperte e di potenziale di sicurezza” per i palestinesi e aggiunge che il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale Jim Jones ha già avuto modo di lavorare sul problema durante l’amministrazione Bush. Netanyahu sottolinea inoltre la necessità di un rapido sviluppo economico nella West Bank promettendo di rimuovere “ogni sorta d’impedimento alla crescita economica” che i palestinesi si trovano davanti.
Per quel che riguarda il fronte politico, Netanyahu promette un “processo graduale dal basso verso l’alto che faciliti le soluzioni politiche e non che le sostituisca”.
“La maggior parte degli approcci alla pace tra Israele e i palestinesi – afferma Netanyahu – sono stati tesi a risolvere i problemi più complessi come quelli dei rifugiati o di Gerusalemme. Il che equivale in pratica a voler costruire una piramide dall’alto verso il basso. È invece molto meglio costruirla strato per strato, seguendo uno schema in grado di cambiare la realtà sia per i palestinesi che per gli israeliani”.
Se un approccio del genere potrà funzionare resta ancora da vedere: lo sviluppo economico palestinese era stato una priorità anche negli anni Novanta, fino a quando non divenne chiaro che svariati miliardi di aiuti stranieri venivano dirottati da funzionari palestinesi corrotti e che in seguito un gran numero di progetti economici congiunti con Israele veniva sabotato con violenza.
Tuttavia, comunque andranno a finire i piani di Netanyahu sull’economia e la sicurezza, lui mette ugualmente bene in chiaro che si sente pronto ad andare avanti solo per pervenire a una risoluzione che soddisfi parte delle attuali richieste presentate a Israele, non solo dai palestinesi ma anche dai siriani, dai sauditi e anche dal resto della “comunità internazionale”. “Non divideremo di nuovo Gerusalemme, non ce ne andremo dalle alture del Golan né torneremo ai confini del 1967”, dice. “Non ripeteremo l’errore dei nostri avversari politici fatto di ritiri unilaterali che non hanno fatto che lasciar libero un territorio per lasciarlo poi prendere da Hamas o dall’Iran”.
Ciò conduce Netanyahu alla proposta politica che, finora con successo, sta presentando agli israeliani in vista delle elezioni del prossimo mese. Quando tre anni fa vennero tenute le elezioni che portarono Olmert al potere, “noi (il suo partito Likud) siamo stati presi in giro” quando avevamo evidenziato il rischio che Gaza si sarebbe potuta trasformare in Hamaslandia e che Hamaslandia sarebbe diventata un terreno di organizzazione per i missili lanciati contro le maggiori città israeliane come Ashkelon e Ashdod.
“Ritengo che abbiamo dimostrato la capacità di vedere i problemi in anticipo”, afferma Netanyahu. “La pace si acquisisce con la forza. Non si ottiene con la debolezza o con i ritiri unilaterali. Semplicemente, le cose non vanno così. È questa, forse, la più grande lezione che si è bene impressa nella mente dell’opinione pubblica israeliana negli ultimi anni”.
I sondaggi sembrano essere d’accordo. Da mercoledì, un sondaggio israeliano assegna al Likud una maggioranza di trenta seggi nel prossimo Knesset, davanti agli otto del Kadima, il partito del ministro degli Esteri Tzipi Livni. Abbondantemente dietro di questi c’è il Partito laburista – tendente a sinistra – del ministro della Difesa Ehud Barak (a circa 15 seggi), che a sua volta sta lottando duramente anche con il destrorso Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman.
I partiti pacifisti del passato, in particolare Meretz, praticamente non esistono più come entità politiche. Se mai torneranno, costituiranno una forte attestazione di che genere di primo ministro Netanyahu sarà questa volta.
© The Wall Street Journal
Traduzione Andrea Di Nino