Il totalitarismo non si sconfigge battendo la povertà (ma Obama lo sa?)
20 Dicembre 2008
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il senatore Henry “Scoop” Jackson fu una delle stelle fuori dal coro del partito democratico americano. Mentre Kissinger tesseva la rete della distensione con l’Unione Sovietica, quelli come Jackson non si accontentarono né del relativismo né della deterrenza riproponendo la categoria di “totalitarismo” per stigmatizzare il regime comunista. Questi democratici – nazionalisti, universalisti, e fieri dell’eccezionalismo americano – anticiparono la battaglia politico-culturale che avrebbe segnato l’ascesa del movimento neoconservatore fino alla sconfitta dell’“Impero del Male”. Il principale assistente di Jackson si chiamava Richard Perle che è stato una delle menti dell’amministrazione Bush.
Avendo il gusto della provocazione ci siamo chiesti se c’è qualche (remota) possibilità che Obama s’ispiri alle parole d’ordine del “jacksonismo” applicandole alla futura agenda di politica estera degli Stati Uniti: dalla guerra mondiale africana – l’ambasciatrice all’Onu Susan Rice ha messo al primo posto il genocidio in Darfur – alla riforma del mondo musulmano e dunque alla vittoria contro il Terrore islamista. Se così fosse, la presidenza Obama offrirebbe degli inediti elementi di continuità con l’idealismo democratico che ha contraddistinto l’epoca e l’epica di Bush.
Ne abbiamo parlato con Mario del Pero che insegna Storia e Istituzioni delle Americhe all’Università di Bologna e ha pubblicato, tra gli altri, “Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori”. Ebbene, con la lucidità che distingue lo storico, il professor Del Pero ci ha riportato con i piedi per terra: la politica estera di Obama sarà molto più prosaicamente un cocktail clintoniano e kennediano. Una politica fondata sull’interventismo umanitario che molto difficilmente condurrà gli Usa a impegnare un numero congruo di truppe nei diversi teatri di crisi. Ma non disperiamo. Forse nei prossimi anni Obama tornerà ad agire, e non solo a parlare, in nome della promozione della libertà e dei diritti umani. Quel giorno segnerà la rivincita di Jackson e dei democratici che non si arresero a un mondo meno libero e sicuro per la democrazia.
Professor Del Pero, quanto sarà importante l’Africa nella prossima presidenza?
Le aspettative sono altissime. Credo che Obama si muoverà in due modi rispetto ai problemi africani: da una parte promuoverà iniziative dall’alta valenza simbolica ma dai bassi costi politici, economici e soprattutto militari, ad esempio coinvolgendo maggiormente gli Usa in azioni di sostegno alla sviluppo economico e al consolidamento democratico; dall’altra si spenderà di più per facilitare una soluzione diplomatica di alcune importanti crisi regionali, Darfur su tutte, appoggiandosi all’Onu e all’Unione Africana. A dispetto di quanto ha scritto e sostenuto Susan Rice, faccio molta fatica a immaginare che gli Usa inviino propri soldati in teatri di crisi africani.
Obama potrebbe recuperare i valori del movimento neoconservatore per favorire i riformisti islamici?
Solo in parte. Anche nel tentativo di distinguersi maggiormente dalla politica di sostegno alla “esportazione della democrazia” di Bush, Obama e il suo team hanno riproposto una lettura più economicistica e meno politica delle matrici del radicalismo di cui si nutre il fondamentalismo islamico. Hanno cioè sottolineato come la povertà, l’arretratezza e il sottosviluppo, assai più che la mancanza di libertà, costituiscano i fattori che alimentano il malcontento e catalizzano la violenza. Si tratta di una tipica lettura liberal, kennediana più che jacksoniana. È possibile che negli anni a venire torneremo a sentir parlare più di modernizzazione e sviluppo che di diritti umani; ovvero che si porrà molta enfasi sulla battaglia contro la povertà come precondizione essenziale di qualsiasi politica di sostegno alla diffusione della democrazia.
In definitiva Obama proseguirà nell’interventismo umanitario del presidente Clinton. Lo farà in modo più consapevole e responsabile?
Non mi è chiaro che cosa intenda per “più responsabile”, ché in fondo Clinton e Albright qualche successo in questo ambito lo ottennero. Se guardiamo ai principali consiglieri di Obama – Susan Rice, Tony Lake, Samantha Power – e alle nomine fatte finora, a partire da Hillary Clinton, sembra chiaro che Obama faccia propri molti degli assunti dell’interventismo umanitario. Ma dovrà commisurare bene obiettivi e risorse, economiche e politiche. Gli Stati Uniti di oggi non sembrano disporre delle risorse per promuovere un’ambiziosa politica interventista. Soprattutto, manca il consenso interno necessario per dare corso alla filosofia interventista della nuova amministrazione: gli americani chiedono al nuovo Presidente che si concentri maggiormente sulle questioni interne e lasci perdere inutili (e costose) crociate globali.
Obama viene dopo la generazione di Woodstock e della Nuova Sinistra…
È stato questo uno dei principali elementi di forza di Obama durante la campagna elettorale. Del prefisso ‘post’ si è certamente abusato in questi mesi, ma certo Obama è il primo leader davvero post-1968. Non si è formato dentro quella temperie politica e culturale, non incarna le polarizzazioni – culturali e generazionali ancor prima che politiche – che essa produsse. E per questo è riuscito a offrire un messaggio di sintesi dei conflitti passati: a rappresentare se stesso, con la propria improbabile biografia, come la sintesi possibile delle tante Americhe che fanno oggi l’America e quindi anche come il superamento dei conflitti e delle lacerazioni passate, incluse quelle razziali
Ci sono degli elementi di continuità con l’epoca di Bush?
È inevitabile che ci siano, soprattutto nella politica estera dove i margini d’azione degli Usa sono inevitabilmente limitati e condizionati da eventi, vicende e scelte sulle quali gli Usa hanno poca voce in capitolo. Ovvio che Obama vorrebbe rilanciare il processo di pace israelo-palestinese ma se Netanyahu vincerà le elezioni e i palestinesi continueranno ad agire (e a votare) come hanno fatto negli ultimi anni c’è ben poco che gli Usa possano fare. Oltre a questo, va detto che durante il secondo mandato di Bush la politica estera si è fatta molto meno ideologica e assai più prosaica, come i negoziati sul nucleare nord-coreano hanno ben evidenziato. E nel solco di un pragmatismo – in parte imposto e in parte scelto – credo vi saranno delle continuità tra il secondo Bush e il primo Obama.