Bandiera rossa non ha trionfato e Rifondazione sconta il suo destino

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Bandiera rossa non ha trionfato e Rifondazione sconta il suo destino

16 Gennaio 2009

C’è qualche cosa da imparare dal triste destino politico di Rifondazione comunista? Di un partito che, sorto nel 1991 dalle sparse membra del Pci, raccolse nel 1996 l’8,6 per cento di voti alle elezioni per la Camera, e il 7,9 al Senato ancora nel 2006, e che nemmeno tre anni (e un’elezione politica devastante) dopo, pare avviarsi alla scomparsa politica? Sì, una lezione che riguarda in generale la politica italiana si può forse ricavare. Perché se le storie dei partiti postcomunisti sono molto diverse le une dalle altre, il declino di Rc è una spia interessante di ciò che accade più in generale nella sinistra di origine comunista.

Rc paga infatti il prezzo di un rinnovamento incompiuto. Sotto la guida ultradecennale di Fausto Bertinotti il partito si è via via smarcato dall’ideologia politica leninista-stalinista approdando alla cultura della non-violenza. Ha tentato di farlo in modo originale, lontano dalla tradizione politica della sinistra italiana (sia pure sotto l’alto patrocinio ingraiano).

Il riferimento più ovvio e ricercato (le foto di Bertinotti con il subcomandante Marcos sono lì a dimostrarlo) è stato il mito del Chapas e del profeta di una rivoluzione tendenzialmente pacifica volta difendere i diritti degli esclusi, dei popoli sopraffatti dal rullo compressore della storia, dei figli illegittimi della modernizzazione. Il mito di Marcos avrebbe forse dovuto sostituire nel cuore, sulle magliette e nei tatuaggi dei militanti della sinistra estrema quello altrettanto romantico ma oltremodo militarista del Che (fra Rc e il governo castrista vi è stata una vera e propria rottura diplomatica). Ciò non è avvenuto. Bertinotti ha anche rifinito la conversione politica con un afflato di religiosità ascetica, compendiata, nella primavera del 2007, in un weekend di meditazione sul Monte Athos, in compagnia dei monaci che gestiscono la repubblica teocratica greco-ortodossa inserita nel territorio greco.

Alla fine, tuttavia, il rifiuto teorico della violenza non ha prodotto alcuna elaborazione originale, e neppure di marca pannelliana o gandhiana, ed è rifluito molto prosaicamente nel pacifismo, vale a dire in una versione disarmata sì, ma subalterna, dei grandi movimenti internazionali no-global e antiamericani. 

Anche il tentativo di irrobustire la struttura di Rc con una diretta assunzione di responsabilità politica nella gestione dello Stato è fallito. Presidente della Camera lo stesso Bertinotti durante l’ultimo governo Prodi, presidente della regione Puglia il suo delfino, Nichi Vendola: questa irruzione nelle stanze alte del Palazzo non ha affatto contribuito allo sviluppo di una identità politica precisa, né al radicamento elettorale. Costretta alle ultime elezioni politiche nelle maglie di un’alleanza-ammucchiata con gli altri pezzi della sinistra antagonista, messa in mora dal Pd veltroniano, Rc ha smarrito nella disfatta ogni peculiarità della visione bertinottiana e si è frantumata anche politicamente.

Da ultimo abbiamo assistito allo scontro scissionista fra il gruppo che fa capo al segretario “trotzkista” Paolo Ferrero e quello guidato da Vendola, che si è consumato al ritmo del vaudeville, fra polemiche caricaturali sul valore politico della partecipazione dell’ex deputata di Rc, Valdimir Luxuria, all’Isola dei famosi, sul ruolo giocato dallo psico-guru Massimo Faglioli, sulla natura del quotidiano del partito, Liberazione, accusato dai detrattori di essere una specie di Grand’Hotel, difeso con audacia sull’altro versante da chi gramscianamente ha rivendicato la funzione nazional-popolare dei fotoromanzi d’epoca…

Ora, se confrontiamo il percorso di Rifondazione Comunista con quello dell’attuale PD, frutto ultimo delle convulsioni politiche succedute allo scioglimento della casa madre comunista, e figlio della confluenza fra gli eredi diretti del Pci e parte della sinistra democristiana, al di là della diversità dei percorsi culturali e politici, un punto in comune lo si trova. Ed è ciò che spiega più in generale la crisi della sinistra italiana. Vale a dire la mancata elaborazione del lutto provocato dalla fine del Pci e più in generale del comunismo.

Rc vi è sfuggita sul versante della rimozione: con la rifondazione, appunto, cercando di separare comunismo e stalinismo in modo da tenere accesa la fiaccola dei valori fondamentali e non disperdere al vento le ceneri del comunismo.

Il Pds, Ds, Pd (nella sua ala postcomunista) ha fatto il contrario. Ha scelto, rispetto al comunismo, la strada della negazione, sintetizzata nella famosa e falsa affermazione del segretario del Pd, Veltroni: “Non sono mai stato comunista”. A differenza di ogni altra sinistra europea nessun confronto drammatico col passato remoto e prossimo (lo scioglimento del Pci è avvenuto, lo si ricordava, nel 1991, due anni dopo la caduta del muro di Berlino). A differenza della destra italiana nessun ripudio formale degli orrori dell’esperienza totalitaria. Il liberalismo inteso come mezzo, quindi strumentalmente, e mai come fine, in qualunque versione lo si sia accarezzato. Da questa scelta negazionista, da questa equivoca fuga nel nuovismo (il partito radicale di massa, l’ulivismo, il partito democratico kennediano, clintoniano, obamiano) è derivata l’impossibilità di scavare un percorso riformista serio ed efficace bonificando la palude del conformismo e dell’opportunismo generato nel dopoguerra dal Pci.

La rifondazione può essere stata un miraggio ideologico, la negazione è un suicidio politico.