L’Italia interrotta e la “gauche” autostradale di Capalbio
26 Gennaio 2009
Se ne parla dall’inizio degli anni Sessanta. Ma ancora nel 2004 il sindaco di Manciano Rossano Galli sbandiera orgoglioso: «La Maremma inizia dove finisce l’autostrada». Evviva la lentezza. E nel 2007 il critico d’arte Alberto Asor Rosa, trasformatosi nel frattempo in un pasdaran dell’ambiente, immagina impaurito che «un pezzo di Maremma scomparirà» se si dovesse costruire un’autostrada in parallelo alla via Aurelia. Proprio così: scomparirà. Nel frattempo è sparito invece il buonsenso. L’autostrada Tirrenica è ancora una chimera. Come il ponte sullo Stretto. Un altro caso eclatante del non fare italiano.
C’è un buco guardando le carte stradali d’Europa. Per andare da Parigi a Roma e proseguire poi per Palermo si percorrono 2300 chilometri, tutti di autostrada tranne 200, quelli tra Rosignano e Civitavecchia. Uno iato. Una strozzatura. Un nonsenso. Perché? Ecco, la Tirrenica – detta anche «corridoio tirrenico» – è un caso singolare, fuori dell’ordinario, quasi ineffabile, dunque ancora più difficile da giustificare. Non c’è dubbio che le associazioni ecologiste, i Verdi, i regressisti di tutti i tipi, siano in assemblea permanente ormai da un trentennio e abbiano contribuito al blocco. Con l’autostrada immaginano la devastazione delle colline maremmane, la distruzione dei vigneti del Morellino di Scansano e conseguenze indicibili su aree protette come il Lago di Burano, il parco dell’Uccellina, le saline di Tarquinia. E ancora la soppressione delle aziende agricole, dei pascoli, degli allevamenti. «Sono posti unici al mondo » dicono. La famosa Toscana felix. Risultato: quando è stato possibile hanno messo ostacoli di tutti i tipi, con ricorsi, appigli burocratici, veti parlamentari, manifestazioni di piazza. Il solito repertorio. Ma nulla avrebbero potuto se alla lotta non si fossero uniti i vip di Capalbio, piccolo centro poco più di cento chilometri a nord di Roma diventato celebre per le spiagge selvagge, la buona cucina, un turismo selezionato e danaroso. Una lobby, è proprio il caso di dirlo, ancora più potente. Ramificata e trasversale. Ma formata soprattutto da quella borghesia «progressista» di sinistra (e romana) pronta a indignarsi per le mancanze del Paese fino a quando non viene messa in pericolo la seconda casa nel buen retiro toscano. Oggi a Capalbio si arriva infatti sulla sgaruppata via Aurelia, teatro di incidenti mortali a getto continuo. Ma anche un’assicurazione a vita contro il turismo di massa, i rumori della strada veloce, il fastidio dei cantieri. Roba quotidiana per milioni di persone. Ma l’isola dei famosi di Capalbio è un mondo a parte, dove domina questo pensiero unico: fino a quando non si muove nulla, la mia vacanza nel casale in campagna è salva. Che orrore l’autostrada. «Guardano la Toscana solo dalla finestra della seconda casa» ha detto una volta l’assessore ai Trasporti della Toscana Riccardo Conti, uno del Pd che invece fa fuoco e fiamme per l’autostrada. E che non ha casa a Capalbio. Come Vito Gamberale, che dice sferzante: «L’autostrada non parte? Questa è la democrazia di Capalbio».
Chi sono questi signori? L’elenco dei personaggi che negli ultimi anni hanno firmato appelli contro l’autostrada è lungo e comprende l’ex ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini e la consorte Linda Lanzillotta, Francesco Rutelli, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Francesco «Pancho» Pardi, l’ex direttore dell’«Unità» ora parlamentare Pd Furio Colombo, i filosofi Sebastiano Maffettone e Giacomo Marramao, giornalisti come Chiara Valentini, Bruno Manfellotto, Daniele Protti, Vittorio Emiliani, Andrea Purgatori, con la partecipazione costante dei nobili Caracciolo e, ovviamente, di Fulco Pratesi e compagnia cantante ambientalista. Quando Pietro Lunardi, ministro berlusconiano delle Infrastrutture, propose il passaggio collinare dell’autostrada, cioè nell’entroterra, apriti cielo. La mobilitazione coinvolse pure quelli di destra toccati nei poderi di campagna come Stefania Craxi e il marito Marco Bassetti, Ferdinando Adornato all’epoca forzitaliota, il commis di Stato Fabiano Fabiani e parenti, l’ex presidente della Rai Enrico Manca, la famiglia La Malfa praticamente al completo, la scrittrice Lidia Ravera, il fotografo Oliviero Toscani, mentre Giuliano Ferrara vedendo insidiato il suo casolare minacciò scherzosamente ma non troppo di darsi fuoco come Pietro Micca. Insomma, per farla breve: tutta gente che ha in comune una bella dimora in Maremma. Oppure amici di chi ce l’ha. Così, la Tirrenica si è trasformata in «una Valdisusa al contrario», per usare la felice espressione di Alessandro Antichi, per otto anni sindaco di centrodestra a Grosseto. Sono (quasi) tutti favorevoli, ma non si fa. Un paradosso che ha fatto venire il mal di pancia anche a uomini di sinistra. A un certo punto, stufo dei veti, il sanguigno presidente della Provincia di Grosseto Lio Scheggi, lo disse chiaro e tondo: «Volete sapere la verità? La colpa è della presenza a Capalbio di personaggi che non vogliono essere disturbati». Mentre Vannino Chiti, altro toscano diessino ex presidente della Regione, di fronte alle proteste dei vip, ricordò che «non si può essere riformisti per la Tav in Val di Susa e non riformisti a Capalbio». Come dargli torto? Certo, bisogna distinguere. Tra questi vip ci sono i duri e puri, contrari a ogni ipotesi di autostrada, favorevoli solo all’ampliamento dell’Aurelia. Come Bassanini, adesso nominato presidente della Cassa depositi e prestiti, cioè la nuova «leva» pubblica per gli investimenti infrastrutturali. O anche Colombo, secondo il quale «non si fanno autostrade in riva al mare», curiosa dottrina che farebbe scomparire l’Adriatica e una mezza dozzina di tracciati italiani. Ma c’è anche chi, come Giuliano Amato, ha finito per accettare l’idea che l’autostrada si deve fare.
In realtà quanto ha influito questa lobby nel processo decisionale sulla Tirrenica? Secondo l’assessore toscano Conti quelli di Capalbio hanno fatto pressioni e mercanteggiato «con la mappa delle ville in mano», con rapporti diretti «con pezzi di potere romano», fosse questo di centrodestra o di centrosinistra. «Di fatto» sostiene «hanno considerato quel territorio come off limits, una zona a sovranità limitata governato direttamente da loro in connessione diretta con il governo di Roma.»
Intanto sono trascorsi invano interi decenni. Basta ricordare che al corridoio tirrenico pensò per primo all’inizio degli anni Sessanta un ingegnere, Mario Bruni, che dopo essersi laureato a soli ventidue anni a Pisa, fu uno dei pionieri della costruzione delle autostrade in Italia. Bruni progettò la Viareggio-Lucca, la Sestri Levante-Livorno e altre strade. Era un periodo in cui si costruiva velocemente. Già alla fine degli anni Settanta si arrivava tranquillamente da tutta Europa fino a Livorno. Poi il boom finì. Per realizzare i 36 chilometri successivi verso sud ci sono voluti altri dieci anni, più di quelli necessari per realizzarne 325 da Ventimiglia a Livorno. Il tratto che finisce a Rosignano fu completato solo nel 1993. Da allora siamo fermi, a parte la trasformazione della via Aurelia in una superstrada con incroci pericolosissimi fino a Grosseto. La Società autostrada tirrenica (Sat) è stata costituita nel 1969, all’epoca dello sbarco sulla Luna e di piazza Fontana, ma quarant’anni non sono bastati per costruire poco più di 200 chilometri di strada. Non solo per colpa del fondamentalismo ecologista e della lobby capalbiese, va detto. Sarebbe un alibi troppo facile. Dopo lo Stretto, la storia della Tirrenica è l’archetipo dell’indecisionismo all’italiana, nella quale si intrecciano procedimenti burocratici lunghissimi e la mancanza di una visione strategica delle forze politiche. Prima è intervenuta la legge più folle che un Paese moderno potesse concepire, quella del 1975 che proibiva la costruzione di nuove autostrade in Italia per motivi finanziari. Poi l’opera venne reinserita nel piano di sviluppo delle infrastrutture del 1982, ma un progetto (che prevedeva da Grosseto in giù un passaggio all’interno) venne bocciato dalla Commissione di impatto ambientale nel 1990. Non se ne discusse più per molto tempo. Dopo le vicende di Mani pulite, nel 1998 la concessione alla Sat venne persino sospesa dal governo D’Alema causa mancanza di fondi, prima che la società passasse sotto il controllo del gruppo Autostrade privatizzato. Furono Berlusconi e Lunari a riproporre l’idea inserendola nelle grandi opere. Senza considerare però che un anno prima, nel 2000, il governo Amato aveva firmato con gli enti locali un accordo per il potenziamento dell’Aurelia mettendo da parte l’autostrada ma non escludendola del tutto.
Un pastrocchio. Inizia a quel punto la commedia e il balletto dei tre tracciati, con protagonisti governo, comuni, regioni, associazioni. Mediazioni estenuanti, senza che nessuno abbia la forza e la volontà di arrivare a una soluzione definitiva. C’è dunque il percorso sulle colline interne sponsorizzato da Lunardi, quello costiero che a un certo punto viene portato avanti dalla Toscana e l’ammodernamento dell’Aurelia preferito dalla gauche au caviar di Capalbio, ma abbandonato successivamente dall’Anas. Un’impasse che dura tre anni fino a quando il ministero dell’Ambiente nel 2006 approva il tracciato autostradale più vicino alla costa, seppur con 84 prescrizioni, cioè interventi da fare per limitare le ripercussioni sul territorio. C’è di più. La Sat presenta un piano finanziario che prevede la realizzazione dell’autostrada con poco più di 3 miliardi di euro, un miliardo in più rispetto ai conti della Regione, ma senza un euro da parte dello Stato. In cambio chiede una concessione di quarant’anni e l’aumento automatico delle tariffe del 3 per cento per dieci anni. Tutto finito? Nemmeno per sogno. Mentre con Lunardi per la sinistra era facile fare «blocco», con il secondo governo Prodi esplodono le contraddizioni. Pecoraro Scanio continua a dire che non si farà mai, mentre il «capalbiese» Rutelli da vicepremier e ministro dei Beni culturali a un certo punto sostiene che bisogna valutare altre soluzioni, per esempio quella di un’autostrada più «leggera». Le carte vanno avanti, ma lentamente. La Regione Lazio (dove i Verdi al governo sono ostili al progetto), non esprime un parere definitivo. Interpellata, non risponde. Non sarebbe vincolante, ma di fatto rallenta una procedura già estenuante. Ci vuole un anno per fare arrivare i falconi al Cipe. Sono tollerabili questi ritardi? È sufficiente un dato per dare una risposta: nella classifica 2008 sulle infrastrutture stilata dal «Sole – 24 Ore» la Toscana è solo al sedicesimo posto fra le regioni italiane. Adesso si spera che i cantieri della Tirrenica possano aprire nel 2010 per chiudere nel 2015. Appunto: si spera. Perché è trascorso quasi mezzo secolo e non c’è ancora un progetto definitivo. Fa ancora rumore Furio Colombo, sdraiato sul lettino dello stabilimento Ultima Spiaggia di Capalbio: «L’autostrada? Mai. Non ho conosciuto una persona in Maremma che la vuole».