Al Cairo è stato un incontro inutile: la guerra civile tra i palestinesi continua

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Al Cairo è stato un incontro inutile: la guerra civile tra i palestinesi continua

27 Aprile 2009

Non è cambiato nulla. Oggi come ieri il mondo palestinese è in guerra contro se stesso. Un tempo erano gli scontri tra il "Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina" e Fatah. Adesso i radicali di Hamas hanno preso il posto dei marxisti dell’FPLP. La posta in palio è sempre la solita. Il potere. O quanto meno il controllo di quel brandello di potere che il mondo palestinese può esercitare su se stesso. Perché su vita e morte dei palestinesi, a Gaza così come in Cisgiordania, è sempre Israele ad avere l’ultima parola. Dunque, alla fine, il tutto si risolve in una guerra tra poveri e impotenti, che non porta a niente e che non fa altro che allontanare una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi.

I colloqui per la riconciliazione nazionale sono ripartiti ieri al Cairo in un clima di tensione e tra il pessimismo generale.  Tutte e due le parti avevano già provveduto a svuotarli di significato con dichiarazioni ufficiali di tono negativo. E così la faida interna al mondo palestinese continua. I due movimenti sono in guerra aperta dal gennaio 2006, da quando, cioè, Hamas ha vinto a sorpresa le elezioni legislative palestinesi. Dopo di allora sono stati solo dissidi, scontri, uccisioni incrociate fino alla cacciata di Fatah, e di Dahlan, da Gaza nel giugno 2007 e alla definitiva presa del potere di Hamas nella Striscia. L’operazione "Piombo Fuso" poteva rappresentare una buona occasione per il mondo palestinese di seppellire l’ascia di guerra e serrare le fila in nome della resistenza al nemico israeliano.

Neanche per idea. Fatah, e in genere i palestinesi della Cisgiordania, non hanno certo brillato per manifestazioni di solidarietà nei confronti dei fratelli che morivano sotto le bombe a Gaza. Mentre Hamas ha approfittato della guerra per lanciare una caccia all’uomo senza quartiere a Gaza contro Fatah. Il rapporto di Human Rights Watch uscito di recente non ha fatto che confermare ciò che tutti sapevano. Gli assassinii, oltre 30 quelli accertati, le gambizzazioni e le torture perpetuate dai “mastini” di Hamas contro uomini legati ad Al Fatah, durante e dopo la guerra, accusati di collaborazionismo e spionaggio a favore degli israeliani. E Fatah, seppur in scala minore, che ha risposto incarcerando decine e decine di miliziani di Hamas in Cisgiordania.

Numeri e odio da guerra civile. Una guerra civile che certo non favorisce la ripresa del dialogo con Israele. Con buona pace dell’amministrazione Obama che a giugno ha convocato tutti – Israele, ANP ed Egitto –alla Casa Bianca per cercare di riprendere un dialogo interrotto ormai da troppo tempo. Tuttavia, mai come oggi, la pace sembra lontana. La congiuntura è di quelle preoccupanti. E se i palestinesi sono in guerra, non passiamo certo dire che di questi tempi gli israeliani siano uniti. Il nuovo governo, sulle questioni di politica estera, in particolare sull’approccio da tenere nei confronti dei palestinesi, è diviso. Da una parte c’è la linea pragmatica di Barak e dei laburisti, ispirata al consolidato concetto di “terra in cambio di pace”, dall’altra c’è invece la linea creativa del ministro degli Esteri Liberman, che più volte ha bollato la politica di concessioni seguita al processo di pace di Oslo come dannosa per Israele e che semmai si sta manifestando in una spregiudicata e inedita formula “pace in cambio di pace”. Nel mezzo c’è il premier Netanyahu che cerca di barcamenarsi e mediare, ma che all’inviato di Obama, Mitchell, ha ribadito la condizione preventiva che «i palestinesi riconoscano lo Stato d’Israele come lo Stato del popolo ebraico, prima di parlare di due Stati per due popoli».

Ma se queste possono essere considerate variabili contingenti, in qualche misura superabili con la formazione di nuove congiunture politiche, ci sono condizioni ostative per una pace che ormai sono strutturali. Per prima cosa l’ingerenza iraniana. Teheran – per ragioni d’influenza regionale più che ideologiche – non vuole assolutamente che israeliani e palestinesi si stringano la mano e continua ad usare Hamas nell’ambito della cosiddetta politica della “sponda”. Si arma e si dà supporto finanziario ad Hamas per controllarne l’agenda politica e mantenere così ben saldo il secondo piede, il primo è quello sull’asse siro-libanese, sulla sponda orientale del Mediterraneo.

E poi c’è il problema delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Nonostante tutto, nonostante l’avvicendarsi di governi di colore politico diverso, la politica degli insediamenti continua. Secondo i dati forniti dal think thank "Equilibri", attualmente gli insediamenti in Cisgiordania riconosciuti dal Ministero dell’Interno israeliano sono 148 (inclusi quelli di Gerusalemme est) per un totale di circa 450.000 coloni. Una porzione di territorio pari al 38% della West Bank. Se questa politica non cambia, parlare di stato palestinese è un semplice eufemismo. Già è difficile fare uno stato su un territorio che non ha continuità, figuriamoci poi se questo è oltretutto frammentato in un desolato puzzle nel suo troncone principale, la Cisgiordania, dagli insediamenti israeliani e dai tanti corridoi che li collegano. E se veramente il Governo israeliano dovesse continuare nel progetto di estendere la colonia di Maleeh Amumim, fino ad unificarla di fatto con l’area metropolitana di Gerusalemme, per i palestinesi sarebbe un nuovo duro colpo alla loro libertà di movimento all’interno della Cisgiordania. Non a caso tale ipotesi è osteggiata duramente da Washington.

Infine, terza condizione, il preteso diritto al ritorno richiesto dai palestinesi. Arafat fece saltare il tavolo a Camp David nel 2000 proprio su questo punto. Almeno ufficialmente. Dopo di allora la questione non è comunque mai uscita dall’agenda dei negoziatori palestinesi che ancora oggi chiedono il diritto dei profughi palestinesi, e dei loro discendenti, a rientrare nelle loro terre originarie oggi in territorio israeliano. Una richiesta inaccettabile per qualunque Governo israeliano che, se accettasse, si vedrebbe arrivare in casa centinaia di migliaia di palestinesi con le temute conseguenze sul carattere ebraico dello Stato.

Restano allora i problemi di fondo. Anzi, i problemi di sempre. Che, certo, la guerra civile palestinese non aiuta a risolvere.