La capitolazione del Cairo
04 Giugno 2009
Il Presidente Obama è perfettamente in grado di capire il simbolismo. La sua campagna presidenziale di Madson Avenue, i suoi slogan e il suo immaginario agiografico sono tutti lì ad attestare il suo viscerale buonsenso. Quindi in che modo dovremmo interpretare il simbolismo di un discorso da seimila parole pronunciato dal palco dell’Università del Cairo, dominata da una gigantesca figura dell’autocrate egiziano Hosni Mubarak? Si può interpretare solamente come una approvazione ufficiale del mondo Arabo per quello che rappresenta adesso – il dominio di un uomo su tutti gli altri.
Infatti il Presidente ha tenuto a sottolineare che lui non crede nella “democrazia”, spiegando che “nessun sistema di governo può essere o dovrebbe essere imposto a una nazione da parte di un’altra”. Da quello che ci sembra di capire il governi dovrebbero solamente “riflettere il volere di un popolo” – con la legge della giungla, signor Obama? Per mezzo di elezioni che portano il 98 per cento dei voti ad un solo uomo (o l’88 per cento nel caso di Mubarak)? Ci siamo veramente così stravaccati da vergognarci di fare proseliti dello stesso sistema di libertà che ci ha garantito i più grandi livelli di pace e prosperità? O siamo solamente contro “l’imposizione” – il linguaggio che i dittatori utilizzano ovunque per proteggere il loro stesso potere?
Cosa ancora più deprimente, poi, il presidente continua a perdersi nell’equivalenza morale che nega l’esistenza del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male – non perché quel tipo di retorica può risultare inutile, ma perché è chiaro che Obama non vede le cose in questa prospettiva. Nel discorso de Il Cairo, a una commovente (anche se per certi versi priva di passione) rievocazione degli orrori dell’Olocausto e della perversione della negazione dell’Olocausto, ha fatto seguito una svergognata transizione – “d’altro canto è anche innegabile” – alle sofferenze palestinesi sotto l’occupazione israeliana. Apparentemente in questo caso, “il dolore palestinese per il trasferimento” è una questione di vittimismo tanto quanto la persecuzione degli ebrei, che poi la decisione di creare due nazioni per gli ebrei e per i palestinesi sia stata rigettata completamente dall’intero mondo arabo sessant’anni fa, non conta niente.
L’equivalenza morale l’ha fatta da padrone anche nella trattazione presidenziale del problema Iran, che ha equiparato il rovescio da parte americana del virulento e anti-occidentale Mohammad Mossadeq nel 1953 con la presa degli ostaggi da parte iraniana durante la rivoluzione del 1979. Se da una parte questo atteggiamento certamente asseconda il sentimento di antiamericanismo popolare nella regione, dall’altra siamo sicuri che anche lo stesso presidente si starà domandando in che modo, il validare questa specie di noncurante cantilena, sarebbe un bene per la sicurezza nazionale americana in Medioriente.
In fondo, questo allungare la mano verso il “mondo musulmano” (qualsiasi cosa voglia dire) ha fermamente piazzato il presidente Obama su di un terreno arabo (utilizzare il modo di ragionare dei leader regionali, riconoscere la retorica dei nostri avversari ). Allo stesso tempo, ha evitato di riconoscere l’importanza simbolica dell’America e di portare avanti i nostri vitali interessi nazionali nella regione. Quando l’America non si erge in difesa di niente, noi non difendiamo niente. I nostri nemici questo lo sanno bene.
Tratto da The American
Traduzione di Andrea Holzer