Il referendum e la “quadriglia bipolare”

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Il referendum e la “quadriglia bipolare”

03 Maggio 2007

Non sappiamo ancora se il giudice costituzionale Romano Vaccarella ritirerà le sue dimissioni. Le pesanti accuse di ingerenza scagliate contro membri del governo, che si sarebbero attivati per spingere la Consulta a un “no” verso l’ammissibilità del referendum elettorale, restano lì. Ingombranti a tal punto che i grandi quotidiani si sono affrettati a seppellire il caso. L’altro giorno, però, Romano Prodi era in giro per Bologna a cercare – cosa insolita – un taccuino o un microfono per dichiarare che no, mai alcun ministro si sarebbe potuto permettere di fare una telefonatina a quello o quell’altro giudice costituzionale per suggerire che se il referendum non passa è meglio per tutti. Chissà perché, ma c’hanno creduto in pochi. Comunque sia, retroscena gossipari e legittime indignazioni a parte, i rumors degli ultimi giorni dimostrano ancora, se mai avessimo ancora bisogno di conferme, che sulla scia del referendum si gioca una partita politica pesantissima.

L’aggressione ai tavolini referendari di Mario Segni confermano, nel più squallido dei modi, che l’atmosfera di mobilitazione antireferendaria non è delle più tranquille. Se si guarda la lista del comitato referendario guidato da Giovanni Guzzetta (che nel frattempo si è ritagliato un profilo da star politico-mediatica) salta subito agli occhi che, tra ingressi e defezioni, abbiamo a che fare con una delle poche squadre bipartisan oggi a disposizione. Dove, com’è logico attendersi, ritroviamo solo esponenti dei partiti politici più grandi dei due poli, per la precisione quella porzione del quadrilatero An-Fi-Ds-Dl (prefigurazione, nel migliore dei casi, di quella formula competitiva che in Francia si definisce “quadriglia bipolare”) convinto che la salvaguardia del bipolarismo italiano sia un valore da difendere prima ancora che una prassi da salvaguardare. Così com’è, la battaglia referendaria può trasformarsi in un ordigno dal potenziale esplosivo enorme, capace di far saltare gli equilibri fragili della maggioranza di governo e gli equilibri fragilini dell’opposizione.

Non è, quindi, solo una pistola posata sul tavolo della discussione parlamentare, come ha detto Giuliano Amato, ma ancora prima una bomba piazzata sotto l’impalcatura che oggi regge la dialettica governo-opposizione. Naturalmente, sono gli azionisti principali del governo Prodi i più preoccupati. Sanno che senza una riforma elettorale seria, che ristabilisca quell’insieme di vincoli e opportunità senza cui il bipolarismo va in apnea, il progetto del Partito democratico può ulteriormente svuotarsi, tanto di contenuti quanto di attrattività: se resta il proporzionale, o se passa una riforma che non premia le aggregazioni, che senso ha diminuire la frammentazione partitica? Dall’altro lato, Ds e Margherita sanno altrettanto bene che, se in mancanza di una maggioranza per la riforma-Chiti i loro vertici dovessero pronunciarsi a favore del referendum come male minore, il giorno dopo Clemente Mastella e la sinistra radicale, sempre più alleati tattici, aprirebbero la crisi.

Se dalle parti del Partito democratico non si ride, nel centrodestra si respira comunque un’aria non troppo salutare. Silvio Berlusconi continua a ondeggiare sulla federazione di centrodestra, al punto che Gianfranco Fini, in un’intervista amichevolmente dura su Repubblica, l’ha spronato a riprendere il mano il timone dell’iniziativa politica. L’Udc di Casini, che ha fatto del giochetto a prendere le distanze l’unica ragione di visibilità del partito, ha già comunicato che sul referendum scatenerà la guerra dell’astensione. Dal canto suo la Lega ha dimostrato, sedendosi al tavolo con Prodi a parlare di legge elettorale e federalismo fiscale, che in caso di referendum intende giocarsi in solitudine la partita della propria sopravvivenza identitaria. Assistiamo così a un processo curioso ma non troppo, per chi conosce le vicende politiche italiane: l’elettorato nel suo insieme, sia di centrodestra che di centrosinistra, chiede da tempo ai partiti, e soprattutto ai partitini, un passo indietro verso la semplificazione dello scontro politico. E in questo senso, oltre al progetto del Partito democratico, si muovono tanto i sostenitori della federazione di centrodestra quanto i teorizzatori (il progetto però è ancora sulla carta) di un partito-movimento che unisca le diverse anime in pena a sinistra del Pd.

I partitini, dal canto loro, stanno costruendo i bastioni per una durissima resistenza contro il referendum, se referendum sarà, o contro qualsiasi progetto di riforma elettorale che ponga asticelle percentuali troppo alte per il loro ingresso in Parlamento. Il problema, come speso accade, è che il potere di ricatto dell’Udeur piuttosto che dell’Udc è di molto superiore rispetto alla loro forza elettorale, come stanno dimostrando le faticosissime trattative che la “nuova Casa delle libertà” sta tessendo per chiudere le liste delle prossime elezioni amministrative. Sulla questione del referendum ci vorrebbe uno scatto d’orgoglio o un atto di coraggio da parte dei leader dei grandi partiti. Altrimenti, la pistola referendaria si trasformerà velocemente nel bastone di Tafazzi.