L’Unità d’Italia non ci emoziona perché ci siamo già spartiti tutto
24 Luglio 2009
Le malinconiche riflessioni dedicate da Ernesto Galli della Loggia, sul ‘Corriere della Sera’(editoriale del 20 luglio), alle iniziative prese dai governi Prodi e Berlusconi per i 150 anni dell’unità d’Italia, hanno suscitato non poche (ma forse salutari) reazioni. Da Alessandro Campi a Gennaro Malgieri, da Vittorio Feltri a Mario Cervi, da Marcello Veneziani a Francesco Rutelli, quasi tutti hanno concordato con le sue analisi, tanto palese appariva l’inconsistenza etica e culturale di quelle iniziative.<La classe politica sia di destra sia di sinistra—ha scritto lo storico–messa di fronte a uno snodo decisivo della storia d’Italia e della sua identità, messa di fronte alla necessità di immaginare un modo per ricordarne il senso e il valore — e dunque dovendosi fare un’idea dell’uno e dell’altro, nonché di assumersi la responsabilità di proporre tale idea al mondo, e quindi ancora di riconoscersi in essa — non sa letteralmente che cosa dire, che partito prendere, che idea pensare. E non sa farlo, per una ragione altrettanto evidente: perché in realtà essa per prima non sa che cosa significhi, che cosa possa significare, oggi l’Italia, e l’essere italiani. Quella classe politica fa di conseguenza la sola cosa che sa fare e che la società italiana in fondo le chiede: distribuire dei soldi. A pioggia, senza alcun criterio ideale o pratico, in modo da soddisfare le esigenze effettive, i sogni, le ubbie, dei mille localismi, dei mille luoghi e interessi particolari in cui ormai sempre più consiste il Paese.|…|. ‘A te un campus, a te una circonvallazione, a te un palazzo per qualche cosa’: l’unico scopo che ci tiene insieme sembra essere oramai quello di spartirci il bilancio dello Stato, di dividerci una spoglia>.
Le stesse conclusioni si possono leggere nell’articolo di Gennaro Malgieri sul ‘Tempo’(23 luglio):< se oggi, a centocinquant’anni dagli eventi che culminarono nella costituzione dello Stato nazionale, siamo ancora a chiederci come e perché ci trasciniamo appresso im destino barbaro di genti disunite, la risposta, per quanto amara, è una sola:l’Italia è stata e continua ad essere affetta dalla prevalenza delle ragioni clientelari sul bene comune; dai particolarismi localistici che non ci fanno intendere pienamente quale può essere il nostro ruolo nel mondo; dagli egoismi personalistici sovrapposti al principio di solidarietà che pure fa parte della nostra cultura e del nostro carattere>.
Nel suo editoriale su ‘Libero’(21 luglio), Vittorio Feltri,<un uomo rude ma capace di andare al sodo> (Alessandro Campi), da una parte, ha rincarato la dose, facendo notare, che < la .nostra è una nazione soltanto formalmente, e il sentimento nazionale di conseguenza è un valore retorico, cioè detto e ripetuto ma per nulla sentito dai cittadini e dai loro rappresentanti eletti per spirito di parte più che per amministrare il bene comune. Se del 150′ anniversario dell’Unità neppure si parla, e se per celebrarlo non esistono progetti all’altezza, il motivo è tristemente semplice: la maggioranza degli italiani lo considera una iattura da non festeggiare. >;dall’altra, ha dato voce alle ragioni della Lega e al suo antirisorgimentismo profondo.<La Lega Nord punta al federalismo non potendo dichiarare di ambire alla secessione. Il Mezzogiorno, terrorizzato sia dal federalismo sia dalla secessione, si organizza: sta dando corpo a una Lega Sud il cui mandato è arraffare milioni per contrastare i piani di Bossi e garantirsi contributi europei e sovvenzioni romane.|…| La politica si barcamena; è una specie di pendolo che oscilla tra due esigenze: dare al Sud per non perderne i voti e non togliere troppo al Nord per non accelerarne il processo centrifugo. Il Triveneto, dove la Lega bossiana si accinge a diventare, se non lo è già, il primo partito, ha un piede nella Mitteleuropa e cerca con rabbia di metterci anche l’altro con tanti saluti all’odiata Patria>.
Proprio così, in effetti. Come ha rilevato Campi sul ‘Riformista’(22 luglio):<La verità, che si fatica ad ammettere, se non altro perché suona come colpa grave per un’intera classe politica e un intero ceto intellettuale, é che la Lega e il leghismo hanno ormai quasi vinto la loro scommessa disgregante. Hanno vinto, ovviamente, non tanto sul piano politico, in considerazione cioè del consenso elettorale di cui hanno goduto in questi anni, che si può anche considerare intermittente e reversibile, ma sul piano emotivo, mentale e della sensibilità collettiva: per le modalità di pensiero e gli atteggiamenti che hanno saputo veicolare ben oltre le loro aree di insediamento; perché, senza che nessuno li contrastasse, hanno progressivamente svuotato di significato i simboli canonici dell’appartenenza nazionale (il tricolore, Roma capitale) e dato sostanza politica ad una tradizione storica alternativa (la Padania); perché hanno saputo trasformare, in mancanza di alternative, l’innato particolarismo antropologico degli abitanti di questa parte del mondo in un modello politico a suo modo suggestivo, basato su formule apparentemente innovative ed avanzate: il localismo, il predominio del territorio, l’autodeterminazione, il culto dei focolare domestico, la mistica del "piccolo è bello">.
<Deprimente? Forse. Ma è così>, concludeva Feltri. E già, a pensarci bene, è tutto molto deprimente: i ‘festeggiamenti’in programma, l’insofferenza di una parte del Nord nei confronti dei ‘padri della patria’, l’incapacità della classe politica, di destra e di sinistra, a dare un senso a vicende storiche che pur ci ricongiunsero all’Europa civile, la sottovalutazione della statura europea dei loro protagonisti, da Cavour a Mazzini, la dimenticanza degli enormi passi avanti compiuti dallo Stato unitario sulla via del progresso scientifico, economico, culturale etc.
Sarebbe però opportuno chiedersi come mai i nemici del Risorgimento, quelli che hanno operato in tutti i modi per rimuoverlo dalla memoria storica, fossero del pari avversari irriducibili del liberalismo e della società aperta: i cattolici tradizionalisti, il socialismo anarcoide e antindustrialista, il notabilato meridionale nostalgico dei Borboni, non poche componenti dell’arcipelago fascista, a cominciare da quelle ‘imperiali e ghibelline’—che con Julius Evola hanno formato le generazioni della destra radicale nel dopoguerra assai più di Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe. E forse converrebbe pur dire qualcosa sul modo con cui la storiografia e la cultura vincenti (comunista, azionista, cattolica) hanno guardato al crollo del fascismo e alla fine della monarchia giacché le colpe giustamente attribuite al regime e all’istituto monarchico hanno paradossalmente segnato il trionfo dell’uno e dell’altro, convalidandone la comune pretesa di identificarsi con la nazione. Non avendo inteso, nonostante l’opera di Renzo De Felice e l’alto magistero di Benedetto Croce, né le ragioni storiche della marcia su Roma, né le benemerenze della dinastia sabauda, l’8 settembre è stato davvero, per le famiglie spirituali tornate dall’esilio, <la morte della patria>. La Francia è sopravvissuta a Waterloo, anche se con ridotto rango di potenza, giacché Napoleone ne fu, per un certo tempo, la spada vittoriosa ma non l’incarnazione fatale. Se l’Italia non è sopravvissuta ad El Alamein, al disastro dell’ARMIR, allo sbarco in Sicilia, all’invasione nazista per varie ragioni ‘strutturali’, si deve soprattutto all’inevitabile coincidenza temporale della ‘costruzione dello Stato ‘unitario con la formazione della ‘coscienza nazionale’, due distinti processi che nei paesi più vitali dell’Occidente hanno beneficiato di secoli di separazione l’uno dall’altro. Una collettività politica, come una grande famiglia, è saldata da antichi e forti legami che prescindono dal ‘principio di prestazione’, del do ut des ,sicché i rovesci di fortuna, lungi dall’indebolirla, possono perfino renderla più coesa. Se a tener uniti gli individui sono soltanto utilità e gratificazioni di vario genere, al venir meno di queste, o si continua a vivere ‘separati in casa’ o si pensa al divorzio (leggi:secessione)—segno sicuro che non ci troviamo dinanzi a una <comunità di destino> ma a una <società per azioni>, sempre a rischio di dissolvimento quando le cose vanno male. Comunque sono discorsi, questi, ormai consegnati agli storici, agli scienziati politici, agli studiosi dei simboli e delle idee e delle credenze collettive.
La questione, che ci si pone, invece, hic et nunc è un’ altra: può esserci vita civile, rispetto delle regole del gioco democratico, senso del ‘bene comune’, orgoglio dell’appartenenza senza una comunità politica forte ed esigente, una <comunità di destino> appunto, si chiami stato nazionale o stato federale o com’altro si voglia? E’ possibile conservare costumi di vita e diritti vecchi e nuovi, ‘coltivare il proprio giardino’, la propria lingua, le proprie tradizioni senza uno spazio istituzionale che imponga doveri e prestazioni anche in assenza dell’utile immediato? Davvero si crede che il <rompete le righe>, il <ciascun pei fatti suoi> ci renderà più ricchi e più felici, sgomberando i nostri armadi dagli scheletri dei <padri fondatori>?
La nostra cultura–soprattutto universitaria—a forza di coltivare universalismi astratti e ‘diritti cosmopoliti’, sembra ritenere che per i popoli ciò che conta è l’infinita apertura al nuovo, la possibilità di optare per i regimi politici primi in classifica nel rispetto della dignità umana. Il terreno su cui si pianta l’albero della libertà non rientra più nella riflessione filosofica e politica, quasi che siano gli alberi a crearsi humus e terreni acconci. Assistiamo a una (non riconosciuta) offensiva dell’illuminismo ‘alla francese’: tutto quello che è radice, appartenenza, ‘sorte’, è l’ombra demoniaca che ancora incombe minacciosa sul genere umano, è l’<irrazionale> che ci divide e ci muove a contese sanguinose e a deprecabili <conflitti di civiltà>. Il fatto è, si obietterà, che sull’<irrazionale> hanno prosperato tutti i regimi autoritari e i totalitarismi di destra: per questo Feltri può scrivere <personalmente confesso di essere imbarazzato solo a scrivere la parola Patria>. Non va dimenticato, però, che lo stato di servizio di quella Ragione Universale che rispetta gli uomini—e conferisce loro sacri diritti’—solo in virtù delle qualità che li rendono eguali—i bisogni elementari, l’esercizio dell’intelligenza etc.—è tutt’altro che rassicurante e che sotto la sua ala si sono consumati i più nefandi delitti della storia degli ultimi secoli, dai ghigliottinamenti del Comitato di Salute Pubblica ai genocidi di Pol Pot (educato non ad Angkor ma alla Sorbonne). Sennonché il discredito riversato sulla ‘nazione’ e sulle differenze istituzionalizzate nello ‘stato nazionale’, grazie alla ‘longue durée’ dell’illuminismo continentale non è lo stesso che colpisce le prove d’orchestra del comunismo: i ‘nazionalisti’ sono ormai una sparuta e risibile minoranza mentre i neo-comunisti–che oggi si rifanno o meglio si appropriano del liberalsocialismo, della terza via, del‘nuovo modello di sviluppo’ etc. e che hanno sostituito alla falce e martello lo slogan <senza eguaglianza sociale non ci può essere libertà politica>–si reclutano a legioni. Della dialettica particolare (nazione)/ universale (umanità) che, per il vecchio Giuseppe Mazzini, era l’essenza stessa della modernità, è rimasto solo il secondo termine e quanti sono tornati a riflettere sul primo—da Pierre Manent a Marcel Gauchet—non vengono neppure citati tra gli autori dei <libri ricevuti>.
<L’Italia sta scomparendo, senza che nessuno lo voglia ammettere apertamente>, scrive Campi e quanti non si pascono di illusioni sono costretti a concordare. A patto, però, di non chiudere gli occhi dinanzi all’altro versante della medaglia ovvero di non dimenticare che non c‘è dialogo tra i popoli e le culture se ci si disfa della propria identità storica e che non si può instaurare un rapporto fecondo con gli <altri> se rinunciamo, per così dire, a rimanere <noi>.
Che non siamo, non ci sentiamo una nazione, è certo ma non dimentichiamo che gli ‘altri’—e soprattutto le grandi democrazie occidentali—continuano, nonostante tutto, a essere e a sentirsi tali e che, nei consessi internazionali, soprattutto durante le crisi economiche e a fronte dei fenomeni legati alla globalizzazione, difendono, eccome! i loro interessi e i loro valori. E li difendono con tanta maggiore efficacia quanto più sanno di poter contare su popolazioni ricche e numerose, su territori sufficientemente estesi, su apparati industriali favoriti da economie di scala. La fine degli stati nazionali, in mancanza di uno stato federale europeo ormai sempre più lontano sull’orizzonte delle possibilità storiche, non sarebbe la liberazione dalle tirannie burocratiche e dagli imperialismi linguistico-culturali ma la ricaduta, pura e semplice, nella barbarie premoderna—si pensi soltanto all’incubo di un Meridione indipendente, governato da una classe politica di cui Raffaele Lombardo potrebbe essere il prototipo. No, tornare ad essere < un popolo disperso che nome non ha > non è un buon affare, specie in periodi di vacche magre quando le risorse si assottigliano e le piazze rischiano di riempirsi di cittadini esacerbati retrocessi a sudditi che, vedendo ridursi il loro tenore di vita, si chiedono perché una parte del loro reddito debba essere destinata ai bisogni dei ‘terroni’ o dei ‘polentoni’. Senza più spoglie da dividerci, che faremo?Ci scanneremo?