Pechino traballa ancora di fronte alla rivolta nello Xinjiang

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Pechino traballa ancora di fronte alla rivolta nello Xinjiang

25 Luglio 2009

A un anno dalle Olimpiadi cinesi la Regione autonoma dello Xinjiang è tornata a rimbalzare sugli schermi del pianeta intero. Queste estati cinesi sembrano essere vittime di una maledizione che tende sistematicamente a squarciare l’equilibrio dell’armoniosa società che il Politburo di Pechino tiene tantissimo a rivendere all’estero. L’anno scorso la tregua olimpica era stata annullata – all’esterno – dall’attacco russo contro la Georgia, sferrato proprio in concomitanza con la colossale cerimonia di inaugurazione dei Giochi e – all’interno – da una serie di attentati contro uffici governativi proprio dello Xinjiang che avevano causato più di 20 morti e una serie imprecisata di fermi e arresti. Allora, le città di Urumqui e Kasghar (famosa per essere il centro abitato più distante da tutti i mari del mondo) erano balzate agli onori delle cronache mondiali per poi venire lentamente risucchiate da miriadi di telecronache sportive e da avvenimenti internazionali ben più preoccupanti e urgenti agli occhi della Comunità Internazionale. 

In effetti, quegli attentati, subito definiti di matrice terroristica, poco avevano a che fare con il jihad internazionale e Al Qaeda; al contrario, si erano rivelati la punta di un immenso iceberg costituito dall’insoddisfazione delle etnie minoritarie cinesi nei confronti del Governo di Pechino: atti eclatanti commessi in un momento in cui la Cina era sotto gli occhi di tutto il mondo proprio per ottenere la massima visibilità e aggirare la censura della stampa nazionale.

La stessa cosa sembra essere successa quest’anno. La missione di shopping effettuata a inizio luglio in Italia da circa trecento imprenditori cinesi e guidata dal Presidente Hu Jintao ha contribuito a puntare le attenzioni della stampa internazionale sul Paese del Sol Levante in un momento cruciale nel quale Pechino ha cercato di presentarsi ai partners del G8 come un alleato credibile e valido sia dal punto di vista economico, che socio-politico. La visita in Italia del Presidente Hu Jintao ha contributo a riallacciare un dialogo sereno con l’Unione Europea, che durante l’autunno scorso aveva dovuto subire un sensibile inasprimento delle relazioni con la Cina. Infatti, il 26 novembre 2008 Pechino aveva formalmente annullato l’XI vertice sino-europeo come ritorsione causata dall’incontro tra il Presidente francese Sarkozy (allora anche Presidente dell’UE) e il Dalai-Lama. In quell’occasione l’Europa aveva perso un’occasione fondamentale per rinsaldare la partnership politico-strategica tra Europa e Cina, ma soprattutto per formalizzare un’intesa comune di contrasto alla crisi finanziaria globale. 

Tuttavia, mentre all’estro il Politburo cinese ha riportato dei sensibili successi, in Patria le autorità si sono trovate ad affrontare, ancora una volta in Xinjiang, la peggiore e più inattesa rivolta popolare dei decenni passati. La rivolta della popolazione della Regione Autonoma Uigiura ha sconvolto l’immagine di “armonia sociale” tanto cara ai dirigenti cinesi, infiammandosi la sera di domenica 5 luglio allorché una manifestazione di migliaia di persone è degenerata in moti e scontri sanguinosi. Il bilancio ufficiale è di 156 morti e circa un migliaio di feriti, ma più di 1.400 persone sono state arrestate e le autorità governative hanno sospeso tutti i servizi di comunicazione con l’esterno della regione.

La Regione autonoma dello Xinjiang confina con otto Stati tra i quali Russia, Pakistan e Afghanistan e possiede i principali giacimenti petroliferi cinesi, che la rendono una delle zone economicamente e strategicamente più importanti di tutto il Paese. Allo stesso modo, la Regione autonoma fornisce alla Cina un terzo della produzione nazionale di gas naturale, con 24,1 miliardi di metri cubi ogni anno ed è al primo posto per la produzione di carbone, concentrando il 40% delle riserve nazionali. Inoltre, l’antica “via della seta” che passa proprio dallo Xinjiang si è oggi trasformata nella “via dell’energia”. Proprio per lo Xinjiang, infatti, passa l’oleodotto sino-kazako che, costruito nel 2007 unisce la città Kazaka di Atasu al centro cinese di Alashanku e ha permesso a Pechino di rafforzare la sua indipendenza dalle riserve energetiche medio-orientali, attraverso un accesso strategico diretto all’energia del Mar Caspio.

La Regione autonoma è dunque uno dei perni della politica estera e strategica di Pechino, ma è proprio all’interno dello Xinjiang che si attua la resistenza più ferma e decisa contro le direttive che promanano dalla capitale. Il risentimento della minoranza uigura (di lingua turcomanna e di religione islamica) è alimentato da una sempre più forte aspirazione ad un’autonomia reale e le recriminazioni che oppongono il gruppo minoritario al Governo di cinese contribuiscono ad alimentare un contrasto che si fa sempre più profondo. 

Dagli anni ’90 in poi le regole che Pechino ha emanato nei confronti degli uigiuri si sono rivelate particolarmente rigide al fine di sradicare una volta per tutte le radici di un’opposizione sempre più strutturata e varando un controllo giuridico estremamente restrittivo specialmente per ciò che concerneva la cultura e la religione: abolizione delle riunioni tradizionali dei componenti delle famiglie più in vista (meshrep); chiusura delle madrasse; stretta sorveglianza degli imam.

Nello stesso periodo è aumentata la colonizzazione demografica dell’etnia dominante han (i cosiddetti “cinesi puri” sono passati dal 6% del 1949 all’attuale 40% circa) ed è stata tentata l’imposizione della cosiddetta “politica del figlio unico”. Quest’ultima, istituita nel 1978 per contenere l’esplosione demografica, per molti dei gruppi minoritari ha costituito una gravissima e insopportabile violazione alle tradizioni familiari, obbligando Pechino ad attenuare questo vincolo nei confronti dei gruppi minoritari.

Nonostante tutti gli sforzi del Governo centrale di uniformare gli abitanti dell’immensa Repubblica popolare, nelle province cinesi periferiche le minoranze etniche sembrano essersi risvegliate dopo un lunghissimo periodo di torpore. A ciò contribuiscono grandemente gli abusi di potere, la corruzione dei dirigenti locali e l’arbitrarietà di una vita che sempre più spesso è votata solo al lavoro e alla produzione. Ciò comincia a non essere più tollerato e se l’abisso tra il Governo di Pechino e le regioni periferiche non verrà colmato il prima possibile il pavimento della “società armoniosa” rischia di spaccarsi. E un terremoto del genere potrebbe portare a gravissime conseguenze.