I liberali parlano di libertà non di riconoscimento

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I liberali parlano di libertà non di riconoscimento

04 Maggio 2007

I soci del Club della Caccia sono liberi di sparare sugli animali non protetti dalle leggi, purché in certe zone e in certi periodi dell’anno; sono liberi di costituire club e ritrovi per gli appassionati del genere, di fondare riviste e iniziative editoriali, di aprire ristoranti in cui si servono, al forno o alla brace, i corpi delle loro vittime, di rivendicare, sulla base di autori classici e moderni, la nobiltà e i valori alti della loro occupazione di tempo libero. Nessuno, in una società liberale, pensa di discriminarli: la loro visione del mondo e dei rapporti dell’uomo con la natura vivente ricade nel privato e, in quanto tale, diviene irrilevante se concorrono a un posto in un ufficio pubblico, se chiedono di aprire un esercizio commerciale, se ricoprono una cattedra in una scuola statale (in quest’ultimo caso, però, alla loro libertà di insegnare che la caccia è cosa bella e buona deve corrispondere l’analoga libertà per i genitori in disaccordo di far cambiare sezione ai loro figli…). Sennonché, a un certo punto, i cacciatori decidono di non accontentarsi della mera “libertà negativa”. Dopo aver letto l’articolo di Maurizio Ferrera, sul Corriere della Sera (del 26 aprile u.s., Perché i liberali tacciono sul family day) si convincono che “Il riconoscimento pubblico è una questione di diritti, ma prima ancora di rispetto: il rispetto di sé e il rispetto che ciascuno deve all’identità e ai progetti di vita degli altri”. E sempre su consiglio del politologo milanese, si mettono a leggere John Rawls e ne traggono la conclusione che “spesso il riconoscimento pubblico è pre-condizione essenziale per il rispetto, che è il più importante fra i beni sociali primari”. Inoltre, si trovano d’accordo col Manifesto del Family Day, citato nell’articolo, sul fatto “che la legge crei mentalità e costume e sono confortati dai liberal americani impegnati in un duplice gioco. Un gioco generale per la difesa della laicità (rispetto del pluralismo e neutralità dello Stato) ma anche un gioco più specifico volto ad affermare, anche tramite la legge, mentalità e costumi liberali (eguale libertà, eguale rispetto, autonomia dell’individuo)”.

Diventano in tal modo paladini – per citare il commento di Giovanni Orsina alle tesi di Ferrera (l’Occidentale del 27 aprile u.s., Non c’è solo il liberalismo di Ferrera) – del principio “secondo il quale il potere pubblico non deve soltanto astenersi dall’intralciare i comportamenti individuali leciti, ma deve attivamente intervenire sulla società al fine di creare condizioni ottimali entro cui quei comportamenti possano prodursi. Non soltanto quando la società o parti della società impediscano del tutto quei comportamenti con la forza. Ma anche quando la società, o parti della società, si limitino a riprovarli”. Insomma, lo Stato sarebbe tenuto a educare le coscienze, passando dalla tutela della libertà liberale negativa (neminem ledere) all’impegno a favore della libertà positiva (e welfaristica), sintetizzata dal “riconoscimento pubblico”. Quest’ultimo significa che la passione morale per la caccia non ricade più nella privacy ma diventa costitutiva dell’identità di cittadino e, pertanto, si traduce in una serie di obblighi concreti (non meramente astensioni) degli altri verso i cacciatori – l’eguale trattamento di favore riservato alle associazioni (chiese, scuole, fondazioni, palestre, accademie etc.) che svolgono attività ritenute d’interesse pubblico.

A questo punto, però, chi ritenga la caccia assolutamente immorale viene costretto a sostenerla, sia pure indirettamente e per una percentuale infinitesimale, di tasca sua. E non è il solo guaio prodotto dal “liberalismo” alla Ferrera giacché se è la legge a creare “mentalità e costume”, viene azzerata quella separazione delle sfere, nocciolo duro del liberalismo classico, che tiene rigorosamente distinte – pur se non incomunicabili – morale e diritto, economia e religione, scienza e arte etc. Quello che per alcuni è morale, in definitiva, diventa diritto per tutti e, grazie al diritto, entra a far parte del normale paesaggio etico dell’intera collettività.

Naturalmente i cacciatori non chiedono che tutti coltivino la loro arte ma solo che s’ingenerino abiti della mente che portano a ritenere egualmente rispettabili, sotto il profilo morale, sia la commozione per la triste fine della mamma di Bambi sia l’emozione dinanzi allo spettacolo dell’arpionamento delle balene. A volerlo definire, però, questo non è lo “stato liberale” ma, per così dire, ‘lo stato etico pluralistico’ che si differenzia dal vecchio “stato etico” di Gentile a quel modo in cui la “partitocrazia”, in una lucida analisi fatta da Giuliano Amato vent’anni fa, si differenzia dal fascismo mussoliniano (a controllare tutte le aree della società civile, secondo Amato, al PNF erano subentrati sette/otto partiti).

E’ scontata l’obiezione: ma come si fa a mettere sullo stesso piano il tema della caccia con quello dell’omosessualità, oggetto dell’intervento di Ferrera? Si risponde facilmente che trattandosi di questione assai più complessa e drammatica e, per questo, più “divisiva” (e smettiamola di dire che tale divisione separa i cattolici dai non credenti, giacché una parte consistente dell’Italia laica è, a ragione o a torto, sulle posizioni del Vaticano), le considerazioni svolte valgono semmai a fortiori.

Una società liberale dovrebbe ritenere del tutto irrilevante l’orientamento sessuale dei suoi cittadini e reprimere severamente la presa in considerazione di un “costume privato” nell’attribuzione di ruoli e funzioni sociali (v. il film Tempesta su Washington di Otto Preminger!). Non può, però, imporre per legge che tutti considerino perfettamente “normale” e”naturale”’ (quali che possano essere i significati di questi termini) comportamenti in contrasto con le loro credenze religiose e i loro valori morali (giusti o sbagliati secondo i punti di vista). Sul piano dei simboli e dei moeurs che stanno alla base delle civiltà, la scienza è impotente quanto la religione: al “perché no?” della prima, può sempre corrispondere il “perché sì?” della seconda. Ad Antonio Di Pietro, che facendo violenza alle sue radici di rurale molisano inurbato, dichiara in un dibattito televisivo che “essere omosessuale o bisessuale ha la stessa rilevanza che essere mancino o destrorso”, è agevole obiettare: “perché questa sua idea dell’irrilevanza dovrebbe essere condivisa da tutti?” E’ liberale una società che non si limita a garantire la libertà di una pratica ma ne vuole anche il solenne riconoscimento giuridico come strategia intesa a cambiare i sentimenti e i “pregiudizi” della gente? In fondo, è l’eterna lotta tra Locke e Rousseau, tra chi ritiene che la fabbrica dei valori stia in basso e chi ritiene che siano lo Stato e le leggi a foggiare i costumi.

Orsina ironizza con garbo sullo strange liberalism di Ferrera: “quello per cui lo Stato deve contrastare gli eventuali vincoli che la società imponga alla libertà individuale anche quando quei vincoli non consistano in azioni oppressive o violente, ma nella riprovazione”. E tuttavia lui stesso sembra indulgere a una sorta di razionalismo benthamiano allorché scrive, in tema di astensione dello Stato a interferire nella libertà individuale dei cittadini, che “è semmai il riconoscimento pubblico del matrimonio, e soprattutto l’attribuzione alle coppie sposate di privilegi tali da comprimere i diritti altrui, a rappresentare una violazione del principio della neutralità dello Stato”. Una tale violazione, a suo avviso, non si può “storicamente e logicamente giustificare altro che con la potenzialità che la coppia ha di procreare e di fornire alla prole un contesto educativo ragionevolmente stabile”. In base a tale logica, però, le coppie sterili – e consapevoli già prima del matrimonio di esser tali – non dovrebbero rientrare nell’eccezione interventista. E, inoltre, se il problema è quello dell’allevamento dei figli perché non prendere in considerazione la possibilità che una coppia gay, responsabile e matura, possa amarli ed educarli meglio di tante coppie normali che chiedono di adottare dei bambini? Il mio compianto amico e collega, Flavio Baroncelli, un filosofo morale (e politico) che a una grande intelligenza univa un’altrettanto grande umanità, ne era sinceramente convinto.

In realtà, ci sono Weltanschauungen irriducibili che non possono venir riconciliate col  ricorso alle regole procedurali, né tanto meno con la comparsa in giudizio dinanzi al Tribunale della Scienza o della Religione o della Ragione. L’unico modo realistico per venirne a capo può consistere nel far sì che nella sfera politica entri un numero molto, molto ristretto di questioni morali e che, in particolare, in quella liberale abbia sempre amplissimo accesso la “libertà” ma non la cosiddetta “dignità”, specie quando il suo riconoscimento comporti profonde fratture sociali e risusciti le guerre di religione. E’, ancora una volta, il liberalismo della “divisione delle sfere” l’ancora di salvezza di una società sempre più pluralistica: nella sua ottica, è concepibile (e forse auspicabile) un bargaining che, sul piano politico e giuridico, renda più facile la trasmissione di beni, di contratti, di crediti in senso lato da un coniuge gay all’altro purché tali misure non preludano a “riconoscimenti’ forzati”, ad “equiparazioni morali” obbligatorie o peggio all’Inquisizione illuministica sempre intenta a schiacciare l’ultima testa dell’idra della Superstizione.