
Caro Saviano, la camorra non ha nulla a che vedere con il libero mercato

08 Luglio 2009
Nel suo libro “Gomorra”, Roberto Saviano suggerisce – in verità in forma più allusiva che esplicita – la tesi secondo cui la criminalità organizzata (campana) rappresenterebbe, nelle sue modalità d’azione economica, l’espressione più coerente e radicale di libero mercato. In realtà, un simile assunto costituisce un grave, ma assai diffuso, fraintendimento dell’essenza stessa di ciò che è davvero il capitalismo.
L’equivoco, in cui cade anche Saviano, è spesso ingenerato dalla identificazione delle attività sommerse o dei mercati neri tout court con un mercato effettivo, per il solo fatto dell’elusione, in alcune fasi del circuito produttivo, dei vincoli normativi statali. Il pregiudizio negativo nei confronti del libero mercato ispira nei suoi detrattori l’idea di una sua consustanzialità con le degenerazioni criminali (di cui è rivelatrice la costituzione dell’aggettivo “libero” con “selvaggio”).
Ora, sebbene il sottrarsi ai pervasivi impedimenti pubblici rappresenti una condizione necessaria per configurare un assetto di mercato libero, non è però di per sé sufficiente: lo sguardo non può esser rivolto solo verso alcuni passaggi della filiera produttiva malavitosa, omettendo di osservarne l’origine. Per affrontare con rigore la questione, qui si farà ricorso alla lezione dei maggiori studiosi del mercato e in particolare di Ludwig von Mises, grazie a quella che egli chiamò “prasseologia” (e cioè scienza dell’azione umana). Offerta una definizione teorica del libero mercato, basta confrontare tale modello astratto con le
modalità di funzionamento delle sei principali attività svolte dai clan camorristici. Sinteticamente, il libero mercato non è altro che il processo degli scambi volontari realizzati dai soggetti appartenenti al sistema economico. Esiste cioè libero mercato solo se qualunque individuo può acquistare da uno o più individui
beni o servizi (o vendere loro), sulla base della libera volontà dei partecipanti; condizione ritenuta vigente con la semplice assenza di violenza fisica o di minaccia di violenza fisica. Paragoniamo ora questo paradigma con l’analisi, di origine empirica, delle modalità d’azione della malavita organizzata campana nei suoi principali settori di attività: 1) estorsione; 2) commercio di droghe; 3) edilizia e opere pubbliche; 4) settore tessile; 5) rifiuti; 6) evasione dazi doganali e contrabbando. Non viene qui considerato il settore finanziario, in quanto i proventi delle suddette attività, rifluendo nei canali bancari ordinari, perdono qualsiasi peculiarità e risultano indistinguibili, nella dinamica operativa e nell’adesione al quadro normativo ufficiale, dagli altri flussi finanziari. La prima attività consiste in un prelievo coercitivo delle risorse di alcune categorie, prevalentemente i commercianti, da parte dei clan territorialmente dominanti. Anche nel caso in cui l’organizzazione criminale presti in cambio un servizio di protezione nei confronti del titolare dell’esercizio commerciale, non muta la natura di quella che Rothbard in Power and Market ha definito una relazione egemonica di tipo binario, cioè un’interazione fra due soggetti fondata su una coartazione unidirezionale: l’aggressore costringe l’aggredito o a trasferirgli un “regalo” (in questo caso la somma di denaro) o a scambiare con lui (protezione in cambio di una somma di denaro).
In entrambe le circostanze manca palesemente la libera scelta da parte di uno dei due soggetti e dunque, sulla base del modello di riferimento, non si può parlare in alcun modo di libero mercato. L’attuale estrema frammentazione della criminalità organizzata del napoletano (a differenza di altri modelli di associazioni per delinquere, come la mafia o la ‘ndrangheta) non modifica in alcun modo la conclusione raggiunta. Nel secondo tipo di attività, ciascun clan impone nell’area territoriale di proprio dominio (in genere il quartiere) il monopolio della vendita di sostanze stupefacenti; dunque innalza barriere all’entrata. La recente “faida di Secondigliano” illustra con evidenza macroscopica tale dinamica. Il clan Di Lauro, che a partire dalla metà degli anni Novanta acquisì il monopolio nella periferia nord di Napoli, imponeva agli spacciatori finali o l’acquisto delle sostanze stupefacenti dai propri uomini, oppure, se il rifornimento proveniva da altre organizzazioni, una percentuale sugli incassi. Il conflitto interno al clan Di Lauro ha la sua origine nel tentativo di alcuni esponenti, gli scissionisti, di non pagare la quota sugli introiti della droga da loro introdotta dalla Spagna. In sostanza, non viene ammessa la comparsa di un secondo offerente (concorrente) sul mercato. Ricorrendo ancora alla classificazione rothbardiana, si tratta di una relazione egemonica, dunque non libera, di tipo triangolare, in quanto i soggetti coinvolti sono tre: l’aggressore impedisce che altri due soggetti possano scambiare liberamente fra loro. Nel caso di specie, l’aspirante monopolista impedisce che altri operatori (gli scissionisti) possano vendere, a condizioni diverse, i propri stupefacenti agli acquirenti.
Circa la terza attività, va introdotta una ulteriore classificazione, in quanto il settore edilizio è oggetto di due modalità d’azione diverse: verso i privati e verso la pubblica amministrazione. Per quanto riguarda la prima, una strategia relativamente recente è quella di pretendere con la forza dai proprietari quote progressive delle società edilizie esistenti. La forma dell’estorsione si evolve, trasformando la dazione economica in partecipazione societaria, giungendo in alcuni casi fino all’esproprio definitivo dell’azienda. La seconda modalità riguarda gli appalti per le opere pubbliche: come è noto, per aggiudicarsi la gara, le cosche corrompono o minacciano o infiltrano i funzionari pubblici.
Su entrambi i fronti non si scorge alcuna libera volontà dei soggetti privati coinvolti. Nella quarta attività una parte consistente del settore tessile del napoletano, sebbene sommerso, non è gestito dalla criminalità, ma composto da microimprese artigianali che operano o per i grandi marchi della moda italiana, o sulla contraffazione, o per lavorazioni, di gamma medio-bassa, dei materiali provenienti in prevalenza dalla Cina. Su questo punto Saviano compie un’operazione non molto corretta, suggerendo un’appartenenza alle organizzazioni malavitose di quasi tutto il comparto dell’abbigliamento per il solo fatto di mantenersi sommerso (o comunque una loro contiguità). Per quanto riguarda poi le lavorazioni ad effettivo controllo camorristico, lo stesso autore usa il termine “Direttorio” per indicare il controllo verticistico dei soggetti abilitati ad operare. Una sorta di trust coercitivo, che, di nuovo, istituisce barriere all’entrata non naturali. Un discorso analogo – abolizione o riduzione forzosa della concorrenza – può essere fatto a proposito della quinta attività, lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti: in genere il clan prevalente, a causa delle economie di scala, presidia un ambito territoriale di maggior ampiezza, spesso provinciale o regionale. Sulla base dell’analisi di tipo prasseologico, solo l’ultima attività approssima il libero mercato: essa infatti coincide con l’evasione dalle pastoie protezionistiche introdotte dallo Stato italiano. I dazi o i contingenti alle importazioni rappresentano infatti un vincolo alla libertà di scambio fra individui, per la sola circostanza che essi risiedono in luoghi geografici artificiosamente delimitati da confini politico-amministrativi. L’elusione di tali gravami, che ha il suo principale centro di irradiamento nel porto di Napoli, si configura senz’altro come un’azione di rimozione degli ostacoli artificiali imposti al mercato. Così come la (non più centrale) attività di contrabbando dei tabacchi, consistente nell’evasione delle imposte di Stato; le quali costituiscono un prelievo coercitivo sul consumatore, e, anche ove vi sia un tentativo di traslazione
in avanti, sul produttore, dal momento che l’aumento di prezzo riduce la domanda del bene inciso dal tributo, e di conseguenza anche l’impiego dei fattori necessari per la sua produzione. Troppo poco, però perché si possa davvero affermare che un’azione aggressiva, intimidatoria e oggettivamente criminale come è quella condotta dai clan camorristici possa essere ricondotta alle logiche, pacifiche e volontarie, del libero mercato.
IbL Focus