E’ proprio brutta “l’arte di stato” che Obama farà pagare ai contribuenti
12 Luglio 2009
di Ryan L. Cole
L’American Recovery and Reinvestment Act del 2009 — che dovrebbe rivitalizzare la fiacca economia degli Stati Uniti — contiene molti stanziamenti controversi che sono finanziati con le tasse dei contribuenti. Il principale sono i circa 50 milioni di “stimolo” per il National Endowment for the Arts. I difensori di questo provvedimento sostengono che, in tempi di crisi economica, le arti e gli artisti soffrono tanto quanto ogni altra categoria del sistema industriale.
Su questo non di discute. Ma i governi, nel passato come adesso, non hanno esattamente quel che si dice una "storia eccezionale" quando si tratta di sponsorizzare le arti. Chi le pensa diversamente farebbe bene a prendere in considerazione la pittura, la scultura e l’architettura della Germania nazista, dell’Italia fascista oppure della Cina comunista. O in alternativa possono visitare lo Smithsonian American Art Museum per dare un’occhiata alla mostra “1934: A New Deal for Artists”.
L’esibizione, aperta dallo scorso febbraio fino al gennaio del 2010, accende i riflettori sul Public Works of Art Project (PWAP): il piano originale contro la disoccupazione contenuto nel “New Deal” roosveltiano, rivolto agli artisti tagliati fuori dal mercato del lavoro ma che fu anche il primo tentativo fatto dal governo statunitense di sponsorizzare le arti su vasta scala.
Il PWAP fu un’invenzione partorita dalla mente di George Biddle – un pittore ed ex compagno di scuola del Presidente Franklin D. Roosevelt. In una corrispondenza epistolare del 1933, Biddle suggeriva a Roosevelt che il governo incaricasse gli artisti di decorare la sede del Ministero della Giustizia, che era quasi finita. Roosevelt rispose favorevolmente al suggerimento e lo comunicò al Ministero del Tesoro, che a sua volta scelse Edward Bruce, un avvocato diventato pittore e poi lobbista, per dirigere il PWAP.
In modo continuativo, dal dicembre del 1933 fino al giugno del 1934, il PWAP commissionò dei lavoretti temporanei per gli artisti “disoccupati” che decorarono edifici e spazi pubblici in giro per il Paese. Durante i suoi sette mesi di esistenza, il piano impiegò 3.700 artisti, con un investimento di 1.312.000 dollari, generando qualcosa come 15.000 opere d’arte, prima di essere inserito nell’Emergency Work Relief Program.
“1934: A New Deal for Artists” mostra 56 delle opere del PWAP per festeggiare il 75esimo anniversario del programma – e coincide opportunamente con l’ultimo round di problemi economici che stiamo affrontando in questo periodo (“la crisi peggiore dalla Grande Depressione”) e con il massiccio intervento federale iniziato dall’amministrazione Obama.
Gli artisti esposti alla mostra – che in gran parte erano dei perfetti sconosciuti prima che iniziasse il PWAP e che lo sono rimasti anche dopo – sono per la gran parte dei neofiti; alcuni di loro erano addirittura dei dilettanti. Quindi la collezione, che dipinge la loro visione della vita americana all’epoca della Depressione – tetri scenari urbani e paesaggi rurali, operai, fabbriche, fattorie e quant’altro – manca del tutto di originalità.
Infatti, quasi tutte le opere esposte sono derivative e neppure frutto di una buona esecuzione. Se guardiamo ai pezzi migliori, la mostra offre lavori come “Chicago Interior” di J. Theodore Johnson o “Festival” di Daniel Celentano, che prendono entrambe in prestito spunti e idee da artisti loro contemporanei, ma molto superiori, come Edward Hopper e Thomas Hart Benton.
Al peggio, la mostra è una monotona collezione di depositi di legname, torri di carbone, zone portuali, imballatori di ghiaccio, spalatori di neve, e lavoratori emigranti, in scene in cui gli operai si oppongono ai manager, i ricchi ai poveri. Questi quadri non derivano dall’arte contemporanea americana ma se mai dal realismo sociale dei murales messicani degli anni Trenta e dal realismo socialista dell’Unione Sovietica, con la sua demonizzazione dei capitalisti e la glorificazione del proletariato.
“Tenement Flats” di Millard Sheets, ad esempio, dipinge i lavoratori poveri di Los Angeles che sono gioiosamente alle prese con i loro affari quotidiani, mentre sullo sfondo si profilano i palazzi Vittoriani freddi bui e ostili – le residenze dei privilegiati – che rivelano facilmente da che parte stavano l’artista che ha dipinto quelle scene, e il governo che le ha commissionate, nel contesto della lotta di classe. E’ interessante che opere come queste fossero appese alla Casa Bianca di Roosevelt.
In “Farmer’s Kitchen”, Ivan Albright crea una terrificante caricatura della vecchia e sofferente moglie di un contadino, con delle nocche gonfie e protuberanti e delle rughe a dir poco esagerate, il tutto per evidenziare la crudeltà di una vita passata a fare lavori manuali.
Douglass Crockwell, uno dei pochi artisti della mostra che andarono alla ricerca della gloria e del successo nei decenni seguenti, è rappresentato da “Paper Workers”, che ritrae operai al lavoro in una cartiera sotto lo sguardo minaccioso di un manager vestito di tutto punto.
Anche “Gold is Where You Find It” di Tyrone Comfort, una delle pitture più stilisticamente forti della mostra, non sfugge a questo sinistro classicismo. Quest’opera, che arredava anch’essa la Casa Bianca, ritrae un minatore idealizzato, forte e muscoloso, intrappolato in un pericoloso pozzo minerario, mentre trapana il cuore della Terra, rischiando di morire all’inseguimento dei profitti che andranno ad arricchire la compagnia mineraria.
Naturalmente, l’intera esibizione non è solo frutto della propaganda. Ci sono alcune crudeli rappresentazioni di trionfi architettonici e della ingegneria dell’epoca (il Golden Gate Bridge, la Pittsburgh Cathedral of Learning), eseguite comunque in un selvaggio stile amatoriale, e ci sono anche alcuni paesaggi piacevoli. Ma anche queste opere non sono necessariamente libere da condizionamenti ideologici. Ad esempio “The Farm” del giapponese Kenjiro Nomura appare una tranquilla rappresentazione di una fattoria sotto un banco di nuvole. Tuttavia, se stiamo alla immaginazione creatrice del curatore, il nero delle nubi rappresenta il pregiudizio e le ingiustizie razziali subite dagli immigranti giapponesi nell’area nordoccidente del Pacifico, e prefigurano la paranoia che porterà all’internamento degli nippo-americani durante la Seconda guerra mondiale.
Un’interpretazione del genere potrebbe essere improbabile, ma il Museo d’Arte Americana è soddisfatto di averla realizzata. E’ chiaro quindi che la mostra sostiene e spera di contare sul “New Deal Redux” del presidente Obama, con la sua vasta espansione di interventi federali e l’aumento dei finanziamenti per le arti. La mostra riflette anche l’ambivalenza della nuova amministrazione verso il capitalismo e la sua tendenza ad esprimere in modo “politically correct” il proprio senso di colpa per la storia americana, vista come una lunga oppressione su base razziale, sessista e classista.
“1934: A New Deal for Artists” probabilmente è stata pensata e realizzata per mostrare le cose meravigliose che possono accadere quando il governo federale entra nel business delle arti – o in qualsiasi genere di business. Ma invece di offrire un argomento convincente sul fatto che l’arte americana abbia tratto dei vantaggi dalla sua collaborazione con Washington, l’esposizione dimostra inavvertitamente che l’arte sovvenzionata dal governo federale – come tante prodotti governativi – tende ad essere deprimente, senza gioia, senza originalità, e troppo ideologica.
Tutti coloro che sono tentati dal favorire un “reinvestimento” governativo nelle arti, o un suo coinvolgimento in altri comparti del settore privato, dovrebbero prendere nota.
Ryan L. Cole ha lavorato come speechwriter nell’amministrazione di George W. Bush.
Tratto da National Review
Traduzione di Ashleigh Rose