La Patria è morta ma anche noi non stiamo tanto bene…
24 Agosto 2009
Sul ‘Secolo XIX’ del 18 agosto u.s., Carlo Stagnaro, uno dei più agguerriti paladini italici del liberalismo libertario (se lo si chiama tout court ‘liberismo’, forse, gli si reca offesa), sentenzia che "la nazione non c’è più" e che "comunque è inutile".
Le parole virgolettate stanno nel titolo dell’articolo, un titolo probabilmente redazionale ma che ne rispecchia fedelmente il contenuto. Il discorso prende l’avvio dalla proposta "geniale" di Umberto Bossi e dalle sue provocazioni – "l’ora di dialetto, le bandiere e gli inni regionali, gli spari a salve contro la salma di Mameli"- e da una dichiarazione al Corriere della Sera dell’ex sovrintendente della Scala, Carlo Fontana, naturalmente un’autorità in fatto di political culture, storia contemporanea, sociologia della conoscenza: "Il vero interrogativo non è se (l’inno nazionale) sia bello o no, ma se l’Italia di oggi affondi ancora le sue radici nel Risorgimento".
Va rilevato incidentalmente che l’unica competenza sicura dell’intervistato — quella musicale: gli veniva chiesto se le note di Michele Novaro fossero belle o no — passa in secondo piano e, come spesso accade nel nostro paese, s’invadono campi concettuali poco frequentati per esternare sonore banalità.
Che l’Italia abbia quasi perduto la coscienza della propria identità, che il Risorgimento, nell’immaginario collettivo, sia divenuto un evento di poco posteriore alle guerre puniche, che dei "padri della patria", un tempo oggetto di retorica, oggi si parli solo per approvare o confutare chi, scribacchiando di Garibaldi, mostra di saperla lunga sul suo orecchio mozzo ( era la punizione inflitta in Sud America ai ladri di cavalli): tutto questo è scontato. Sennonché la vera domanda da porsi è un’altra: è un bene o un male che si sia arrivati a questo punto?
Carlo Stagnaro, che non ha dubbi di sorta, procede a colpi di accetta, col rischio di una confusione inestricabile di piani, di categorie, di fattispecie storiche. La questione italiana, a suo avviso, o si risolve con le pratiche del nazionalismo — "una grama bestia, ma soprattutto una bestia del passato" — o col "far tornare i conti pubblici, riformare la scuola, ridurre le tasse". Che cosa sia la "bestia" ci viene spiegato "a contrario", "sine ira et studio", con quell’attitudine critica e "wertfrei" che Max Weber — un pericoloso sciovinista della famiglia di Carl Schmitt, Julien Freund, Raymond Aron, Hans Morgenthau etc.— pretendeva dallo studioso.
"Sono pochi quelli che considerano ‘sacri’ i confini. I più li ritengono una scocciatura. Ancora: grazie a Dio. La gente ha smesso un po’ di commuoversi quando sventola il tricolore |…| La ferita di due guerre mondiali, la crescita economica, la globalizzazione hanno soppiantato quell’orizzonte.|…| Abbiamo smesso di sentirci italiani, tedeschi o francesi |…| la nostra identità si è fatta plurale". A riprova di un’analisi così nuova e acuta viene citata la ricerca di un "giovane storico genovese, Paolo Smeraldi" (mai sentito nominare, ma la mia incultura è nota) in cui si "mostra come perfino l’insistenza di Carlo Azeglio Ciampi, che aveva fatto della riscoperta della nazione l’obiettivo del settennato, sia scivolata quasi senza conseguenze sulla pelle del Paese".
Quando si dice l’intelligenza storica! Forse si sarebbe potuto ricordare che nella città dello Smeraldi, che è poi la patria di Giuseppe Mazzini e della famiglia Garibaldi (proveniente dall’entroterra chiavarese), da tempo non è più attiva la cattedra di "Storia del Risorgimento" e che anni fa si era persino proposto di inglobare l’Istituto Mazziniano in quello della Storia della Resistenza, dal momento che è la lotta partigiana e antifascista ad aver riportato l’Italia all’onor del mondo facendo dimenticare le gravi colpe del processo unitario.
C’è da chiedersi se Stagnaro conservi, tra i suoi ricordi scolastici, il contributo decisivo che i suoi nemici "naturali" — le sinistre marxista, cattolica e azionista — hanno dato alla rimozione di una identità nazionale fondata sul Risorgimento "sabaudo". Da Piero Gobetti ad Antonio Gramsci, passando per storici minori come Cesare Spellanzon e Luigi Salvatorelli, per più di mezzo secolo, abbiamo letto le nefandezze di Casa Savoia, ingorda di terre e di tasse, le guerre civili del Sud, la mancata riforma agraria di tipo giacobino, l’estraneità delle masse, specie contadine, alla "costruzione dello Stato". Che storici sommi come Gioacchino Volpe, Benedetto Croce, Rosario Romeo, Federico Chabod abbiano confutato, all’interno di ricerche rigorosamente scientifiche, le mitologie della cultura antagonista non sembra avere alcuna rilevanza.
Della stessa pasta intellettuale e morale di quei grandi, pur se dotato di un carattere difficile e di asprezze polemiche che lo rendevano spesso ingiusto con gli avversari, lo stesso Gaetano Salvemini spiegava una questione cruciale come l’accentramento amministrativo in termini che non sarebbero affatto piaciuti a Raffaele Lombardo: Salvemini Gaetano.
Nell’Italia politica nel secolo XIX (in D. Donati e F. Carli, a cura di, L’Europa nel secolo XIX. Istituto superiore di perfezionamento per gli studi politico-sociali e commerciali in Brescia, Ed. A. Milani, Padova 1925), rilevava lucidamente: "Eliminato dalle soluzioni accettabili tanto il federalismo democratico di Cattaneo, quanto il centralismo democratico di Mazzini, rimaneva il federalismo censitario della scuola moderata. Invece, dopo la spedizione di Garibaldi nel Napoletano, i moderati abbandonano rapidamente le idee federaliste e adottano le idee centraliste. Come si spiega questo fatto? Si spiega, quando si consideri che nell’Italia settentrionale e centrale esisteva una relativamente florida borghesia manifatturiera, commerciate, agraria, intellettuale, e formava il grosso del partito moderato, ed era perfettamente capace di governare da sé gli enti locali, in quel sistema di autonomie censitarie, che era l’ideale del partito moderato".
"Invece, nell’Italia meridionale i nuclei di borghesia fondiaria e di piccola borghesia, prevalentemente intellettuale, che formavano il grosso del partito nazionale, sì sentivano impotenti a tenere il paese con le loro sole forze, anche in un regime censitario. Quei nuclei, si dividevano in moderati e democratici, e i moderati dovevano mantenersi al potere contro i gruppi borbonici, ai quali aderivano larghe zone della proprietà fondiaria, e contro i gruppi democratici, ai quali aderiva buona parte della borghesia intellettuale, mentre il clero rimaneva quasi tutto fedele al partito borbonico, e mentre i contadini sfuggivano alla leva e si davano al brigantaggio. Gli antichi funzionari dovevano essere sostituiti con elementi nuovi, oppure essere assorbiti in una nuova gerarchia amministrativa. Ma per nessuna di queste due soluzioni i gruppi moderati del Mezzogiorno potevano offrire un personale sufficiente, né per numero né per capacità".
"In queste condizioni, la minoranza nazionale nei Mezzogiorno poteva mantenersi al potere solamente se un aiuto esterno fosse intervenuto a rafforzarla. Questo aiuto poteva venire soltanto da una gerarchia di funzionari, indipendenti dalle popolazioni locali, mandati dal nord ad inquadrare, disciplinare, dominare quelle popolazioni, e assicurare su di esse il governo della minoranza nazionale moderata. Un’amministrazione accentrata era, dunque, una necessità assoluta, se non si voleva mandare in sfacelo l’unità nazionale d’Italia, attraverso l’anarchia amministrativa dell’Italia meridionale".
Problemi di ieri, d’accordo, e da riguardare con fastidio oggi "che l’essere (o il sentirsi) italiani è divenuto irrilevante, dal punto di vista politico". Ci si chiede, però, cosa ci apprestiamo a diventare nel momento in cui le nostre radici storiche si stanno essiccando e la risposta non può che essere: un niente di niente! Eh sì perché gli intellettuali non conformisti che ritengono definitivamente archiviata la "questione nazionale" incorrono nello stesso errore della mente commesso dalle vittime della "Group Mind Fiction" (altre volte richiamata in queste pagine) ovvero di quel meccanismo psichico che induce a considerare "enti realissimi" quelli che ne sono soltanto gli attributi.
Per loro hanno consistenza ontologica il liberalismo e il socialismo, il nazionalismo e il conservatorismo — indipendentemente dal dio sotto le cui bandiere decidono di militare — mentre la Francia, l’Inghilterra, la Russia, gli Stati Uniti sono incarnazioni terrene e transeunti, più o meno fedeli, di quelle fattispecie ideologiche. Nessun sospetto che, per comprendere la nostra malinconica "humana condicio", occorra mettersi da una prospettiva completamente diversa che faccia della "comunità politica" — comunque estesa, organizzata e legittimata sul piano dell’autorappresentazione — la "creatura" in carne ed ossa e dell’ideologia politica lo "stile", l’abito istituzionale che essa indossa, di volta in volta, nella storia.
L’abito, beninteso, fa spesso il monaco sicché i rappresentanti di un popolo di non eccelse qualità umane come quello anglosassone, riuniti a Westminster, possono chiedere scusa a un povero esule italiano, Giuseppe Mazzini, di cui la polizia ha violato la corrispondenza privata: resta il fatto che se il guardaroba delle dottrine politiche e giuridiche, delle "forme di governo", è vasto e complesso decisivo è soprattutto chi e come se ne serve.
I libertari, come i filosofi del diritto e i sociologi della sinistra antagonista, conoscono solo gli individui astratti da ogni altra ‘qualità’ che non sia quella fondamentale. L’universalismo celebra i suoi trionfi, in un caso, in nome dell’eguaglianza illuministico-cristiana di tutti gli uomini, nell’altro, in nome dello scambio totale all’insegna del "vinca il migliore" (chiunque esso sia). Le comunità politiche si ritirano nell’ombra e rimangono, per i filosofi e i sociologi del dissenso radicale, gli individui portatori di identici diritti sotto ogni longitudine e latitudine—sicché le frontiere dovrebbero spalancarsi e la cittadinanza, con le relative generazioni di diritti civili, politici e sociali, venire concessa a tutti indistintamente per la sola appartenenza al genere umano; per i libertari, gli individui come liberi agenti sul mercato, produttori e consumatori, che dovrebbero orientarsi sulla sola base delle loro convenienze. In entrambi i casi, nessun sospetto che i diritti e le libertà, come hanno fatto rilevare pensatori come Marcel Gauchet e Pierre Manent, non nascono nel deserto ma in comunità politiche particolari dalla cui forza dipendono la loro vigenza e sopravvivenza. Chi opera sul mercato è sicuro del rispetto dei patti ("pacta sunt servanda") perché a farli osservare c’è la potenza dello Stato. Friedrich Engels, nella sua analisi non invecchiata della genesi dello stato nazionale, faceva l’esempio dell’imprenditore all’estero che poteva contare sul pagamento delle sue merci perché aveva dietro di sé l’ambasciata di una "Grosse Macht".
Come tutti i critici del moto unitario che si rispettino, Stagnaro, per citare il recente bell’articolo di Francesco Perfetti — "Per ricattare il premier il Carroccio demolisce anche il Risorgimento" (Libero, 21 agosto u.s.) — dimentica che "il nostro Risorgimento si inseriva nel quadro di un moto europeo sviluppatosi all’insegna del binomio ‘nazione e libertà’"; ignora "lo sforzo portato avanti dalla dinastia sabauda e dai governi dell’Italia postrisorgimentale e liberale |…| per creare rafforzare il senso della comune appartenenza ad una entità statuale superiore alle particolarità regionale"; e non si esclude che finirà anche lui "di risulta, per esaltare e conferire legittimazione a episodi di puro brigantaggio o delinquenza comune attribuendogli nobili motivazioni politiche e ideali".
E’ motivo di grande sconforto il fatto che la nostra grande tradizione liberale — da Cavour a Einaudi, da Pannunzio a Romeo, da Croce a Maranini — non abbia più alcun significato non solo per i neotradizionalisti, come l’ineffabile Angela Pellicciari, instancabile autrice di libelli in cui vengono riproposte fino alla noia le critiche allo stato italiano dell’antiunitario don Margotti, ma altresì per gli zeloti del neo-liberalismo.
A leggere i loro articoli e saggi, non sembra esserci nulla di incomprensibile nell’universo politico, ma tutto — dall’economia all’ambiente — potrebbe risolversi con le loro ricette. Di questo passo, non solo diverrà inutile lo studio della nostra storia nazionale ma dovrà essere rivista la stessa "democrazia". Se si riconoscono, alte e trasparenti, le libertà dell’"homo oeconomicus" e se al di là del mercato non ci sono altri modi di assegnare doveri e spettanze, perché perdere tempo coi ludi cartacei? Perché mettersi a rischio che i cittadini scelgano di "costruire una lingua comune" invece che "riformare la scuola"? O di finanziare l’insegnamento universitario del sanscrito pur in presenza di meno di dieci allievi l’anno?
In fondo, in America, gli estremisti dell’"universalismo del diritto" sono arrivati a conclusioni simili: se il diritto regolamenta ogni rapporto sociale, se, al fine di evitare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non possono esserci spazi riservati alla discrezione degli individui, perché consentire a maggioranze mal consigliate di decurtare i sussidi pubblici alle famiglie indigenti?
Il colmo dell’ironia, però, è costituito dalla simpatia di Stagnaro per Bossi. E’ tale l’insofferenza per lo "stato sabaudo" da non accorgersi che il Senatur non è affatto critico dello stato nazionale tout court ma solo di quello romano-italiano. La sua grande ambizione è costruirne a nord di Firenze una versione ridotta ma con tutte le caratteristiche del detestato modello nazionalistico — a cominciare dall’ufficializzazione della parlata dialettale. Non ha forse, tempo fa, invitato a sdoganare il termine "protezionismo"? Se lo stato nazionale, con Manent, è l’incontro tra l’universalismo e la tribù, nel progetto leghista resta solo la tribù… tra gli applausi degli universalisti del mercato.