L’Irap è un’imposta iniqua ma la soluzione di Giavazzi non è praticabile
15 Ottobre 2009
Nell’editoriale sul Corriere della Sera del 14 ottobre, Francesco Giavazzi sostiene che una forte iniezione di liquidità nel mondo delle imprese potrebbe sostenere la ripresa economica. E suggerisce (al ministro dell’economia) il modo per farlo: non sottraendo alle aziende i 30 miliardi e più di euro che arrivano dal gettito della famigerata Irap.
Sono in tanti a concordare su questa idea, sull’idea cioè che la soppressione dell’Irap rappresenti il biglietto giusto da staccare per prendere il treno della ripresa economica. Emma Marcegaglia, il numero uno di Confindustria, per dirne uno, l’ha manifestata all’indomani della notizia di avvenuta abrogazione dell’omonima tassa decisa in Francia. Oppure Guido Tabellini, che dalle colonne del Sole24ore ha proposto di rimpiazzarla con un aumento dell’Iva per spostare le distorsioni fiscali dalla produzione al consumo. O ancora Giuliano Cazzola (Se lo scudo fiscale funzionerà allora sì che si potranno tagliare le tasse, su l’Occidentale) che parla più adeguatamente di una «rivisitazione» dell’imposta, in special modo «nella base imponibile (negli aspetti che includono il costo del lavoro) prima ancora che nella misura dell’aliquota».
La soppressione dell’Irap è certamente un risultato atteso, sperato. Soprattutto da questo governo che l’ha promesso alla vigilia di due tornate elettorali, compresa l’ultima. E’ un’imposta discutibile, come sostiene Giavazzi, e che ha del paradossale nella sua applicazione. Ma si deve convenire che l’abrogazione è un’operazione che può rientrare soltanto in un progetto più ampio di ristrutturazione del sistema fiscale. Se non altro, per il fatto che la conseguente riduzione del gettito fiscale (nelle casse delle Regioni) andrà recuperata da altre fonti (nuove tasse? E su chi?).
L’Irap punisce chi dà lavoro, sostiene ancora Giavazzi. Aggiungendo: «Il paradosso è che questa imposta punisce le aziende che nella crisi hanno cercato di proteggere i loro dipendenti, evitando di ricorrere alla cassa integrazione anche quando gli ordini scarseggiavano. Chi più ha sfruttato la cassa, meno Irap pagherà.». L’affermazione – mi sia concesso – appare un po’ azzardata. L’Irap non può essere presa, oggi, a discriminante per spartire in buoni e cattivi (o meglio in scaltri e ingenui) i datori di lavoro. L’Irap preesisteva alla crisi economica, e come tale apparteneva (ed appartiene) alla voce del costo del lavoro (ha soppiantato l’Iciap, l’Ilor, la patrimoniale e per la sola voce del costo del lavoro ha soppresso il contributo Ssn del 10,60%, il contributo solidarietà del 4,60% e altre contribuzioni minori per un 1,86%). Nessun datore di lavoro avrebbe voluto lasciare a casa oppure mettere in cassa integrazione i propri dipendenti. Se l’hanno fatto, è stato per salvare le sorti dell’azienda, in un freddo quanto efficace (e vitale) ragionamento economico. Del resto la cassa integrazione – fortemente incrementata da questo governo – mira proprio a questa finalità: aiutare le imprese a non dissolvere il capitale umano; quindi gli stessi lavoratori a rimanere nelle “loro” aziende. E’ riduttivo, perciò, convertire gli ammortizzatori sociali (la cassa integrazione, nel nostro caso) ad una sorta di “premio” sortito a favore delle aziende per aiutarle a mantenere a sé la manodopera. Al contempo, nemmeno l’Irap può essere vista (oggi) come la “punizione” all’impresa virtuosa che, contando solo su se stessa (cioè senza ricorrere alla cig), abbia mantenuto in forza i propri dipendenti. E’ vero, sì, che nei fatti succede questo; ma è un’anomalia preesistente alla crisi.
E arriviamo alla vera questione dell’editoriale di Giavazzi: il problema liquidità delle imprese. Il timore dell’Economista è che i 12 miliardi di euro destinati a finanziare i Tremonti-bond affinché le banche allentino le maglie del credito alle imprese, alla fine, possano finire a finanziare la Banca del Sud: da qui la proposta di destinare quei soldi alla riduzione dell’Irap. Un timore pienamente condiviso. Non soltanto sul fatto, come sostiene Giavazzi, che quei 12 miliardi possano finire «non ad aiutare tutte le imprese, bensì le più furbe, quelle che creeranno attività fittizie nel Mezzogiorno per accedere ai finanziamenti della nuova banca». Ma la paura è soprattutto per il danno collaterale che un (ennesimo) sostegno al Sud possa procurare al tessuto produttivo, a prescindere dalle tendenze delle imprese (furbe o non furbe). E cioè che quei soldi entrino semplicemente a far parte delle componenti di costo dei bilanci aziendali, ovviamente con il segno negativo, senza ricadute sulla produzione, ma così ipotecando questi territori a sacrifici e tempo per riordinare l’autonomia finanziaria, e quindi economica, delle aziende.
Non condivido, però, l’alternativa suggerita dall’Economista di destinare le risorse all’abrogazione dell’Irap. Non perché non ne sia sostenitore (l’ho detto prima), ma perché non credo che i tempi siano giusti: dubito che una simile operazione fatta oggi possa concretamente aiutare a rilanciare la ripresa economica. Con quello che costa, è il caso di appurare se quelle risorse possono essere impiegate diversamente e più efficacemente a beneficio dell’economia.
Il problema, si diceva, è la liquidità delle imprese. Liquidità non equivale (necessariamente) a redditività. A maggior ragione se sono le banche, come sostengono anche Giavazzi e lo stesso ministro Tremonti, che «strozzano le imprese lesinando il credito»: se qualcosa va corretto o sostenuto è, dunque, il rapporto “banca-impresa”.
Il vero problema delle industrie, oggi, è la mancanza di ordinativi. Ed è quello che frena anche le banche ad aprire i rubinetti del credito. Per dare avvio alla ripresa economica c’è bisogno di rimettere in moto gli acquisti, che trainano le aziende con la produzione. (E le banche). Per stimolare il consumo, la via obbligata è quella di rifornire di soldi i consumatori, riducendo a loro il prelievo fiscale in busta paga. Il sospettoso rischio che si potrebbe insinuare in un’operazione di iniezione di liquidità a favore (soltanto) delle imprese – come appunto deriverebbe dall’abrogazione dell’Irap – è quello di risolvere il contabile delle aziende con parziali ricadute sui redditi, poco o addirittura per niente rilevanti alla ripresa della produzione. Con una crisi alle spalle, l’ultima tentazione che potrebbe venire alle imprese è quella di azzardare nuovi investimenti: prima vanno sbiancati i conti in rosso. Poi viene il resto. Che intanto può aspettare fino a quando il mercato lo richiederà.