L’Europa si chiede con inquietudine se Obama lascerà l’Afghanistan

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L’Europa si chiede con inquietudine se Obama lascerà l’Afghanistan

20 Ottobre 2009

Mentre il presidente e il suo Consiglio per la sicurezza nazionale discutono in privato sull’opportunità di mandare in guerra altre decine di migliaia di soldati, gli alleati europei dell’America restano in attesa, ansiosi e angosciati. Sanno che se venisse deciso l’invio di quei rinforzi, a loro verrebbe chiesto un contributo in soldati o comunque in personale, che li porrebbe di fronte a notevoli difficoltà politiche. Ma la paura più grande è che il presidente degli Stati Uniti si mostri debole in una questione considerata di importanza cruciale. E sono frustrati perché non possono fare altro che guardare e aspettare – e aspettare, e aspettare – mentre il presidente prende le sue decisioni.

“Ciascuno è in attesa di quello che sarà deciso nello Studio ovale, senza avere alcuna possibilità di metterci bocca”, si lamenta un alto ufficiale di una forza armata europea.

No, comitato norvegese per i Nobel, questo non è George W. Bush bensì Barack Obama, il presidente magnificato per favorire un’armoniosa collaborazione con il resto del mondo. E’ corretto affermare che Obama abbia tentato con più determinazione di Bush di trovare una collaborazione con gli alleati; ma le sue deliberazioni sull’Afghanistan stanno a dimostrare come alcuni fondamentali dell’essere una superpotenza siano immutabili.

Ad esempio, quando fornisci il 70 per cento delle truppe che partecipano a una guerra e sostieni il 90 per cento dei combattimenti, gli alleati non possono fare altro che aspettare mentre decidi se procedere a un’escalation, mantenere le cose come stanno o cambiare radicalmente strategia.

E mentre aspettano, si macerano. In conversazioni da me avute con alti ufficiali europei in visita a Washington e in una conferenza transatlantica tenutasi presso la Fondazione Magna Carta, a Roma, ho ascoltato grida di euroansietà circa la strategia adottata da Obama. Parte dei timori nasce alla semplice vista di un giovane presidente che esita nel portare avanti impegni che lui stesso si era assunto appena qualche mese fa, e dal pensiero degli effetti che un tale atteggiamento può provocare nei nemici, tanto in Afghanistan che in altri posti.

Ma una parte sorprendentemente alta – vista la provenienza europea – di queste preoccupazioni, è legata al dubbio se Obama sarà abbastanza forte da – per citare le parole di un ambasciatore – “tirarsi fuori da una missione nella quale ci siamo tutti impegnati”.

I governi europei hanno sottoscritto il piano per pacificare l’Afghanistan presentato in marzo da Obama. A differenza del presidente Usa, non avevano dubbi sul da farsi. Erano d’accordo con le raccomandazioni fatte dal comandante nominato dallo stesso Obama, il generale Stanley A. McChrystal, secondo il quale o i talebani vengono sconfitti entro l’anno prossimo, oppure la guerra potrebbe essere perduta.

E però, è difficile per i leader occidentali sostenere che Obama dovrebbe inviare i 40 mila e più uomini che chiede McChrystal di rinforzo, quando poi il massimo che loro potrebbero aggiungere a un tale impegno sarebbero duemila o tremila soldati europei. Così, preferiscono concentrarsi sull’altro aspetto della questione: il perché l’Occidente non possa sottrarsi all’impegno di stabilizzare l’Afghanistan per mezzo di un governo credibile.

“Abbiamo bisogno di creare un governo stabile in Afghanistan, un governo con cui si possa trattare – ha dichiarato il segretario generale della Nato, generale Andres Fogh Rasmussen, durante una sua recente visita a Washington. – Altrimenti dovremmo affrontare una permanente instabilità in Afghanistan e nell’intera regione”.

Rasmussen e altri esponenti europei colgono volentieri l’occasione per contestare la strategia talvolta attribuita al vicepresidente Biden, secondo la quale gli Stati Uniti dovrebbero dedicarsi principalmente ad operazioni antiterrorismo contro al Qaeda con gli aerei senza pilota e le forze speciali. “Perché non sono stati eseguiti attacchi di Predator a Peshawar o a Quetta? Perché non si possono fare – ha detto il ministro degli Esteri svedese Carl Bildt, il cui paese rappresenta in questo momento l’Unione europea. – Però sappiamo che importanti capi di al Qaeda e dei talebani si nascondono in quelle città. Non riesco a vedere una strategia percorribile”.

Ovviamente, è stata la Gran Bretagna a compiere il tentativo più diretto di influenzare il dibattito in corso a Washington. La scorsa settimana, il primo ministro Gordon Brown ha annunciato l’invio di 500 soldati, che si andranno ad aggiungere ai novemila già di stanza in Afghanistan; una mossa che non avrebbe molto senso, qualora gli americani decidessero per un disimpegno parziale. Il suo capo di stato maggiore non ha lasciato alcun dubbio su quelle che sono le posizioni dei militari britannici: “Non voglio mettere parole in bocca agli americani, ma sono fiducioso in un esito favorevole della vicenda” ha confidato l’Air Chief Marshal sir Jock Stirrup, che poi ha aggiunto di condividere “praticamente tutto” del rapporto McChrystal.

In effetti, gli uomini dell’amministrazione Usa dicono che il presidente non si è ancora deciso, e aggiungono che la decisione di Brown non gli ha creato alcun problema. Al momento, mi sembra che la conclusione più probabile delle discussioni in corso alla Casa Bianca sia l’invio di altro personale militare, istruttori o anche soldati, ma non di tutti gli effettivi chiesti da McChrystal.
Se questa sarà la sua decisione, Obama avrà molto da lavorare con i suoi alleati. “Quando la decisione sarà presa, Obama dovrà confrontarsi direttamente con le sue controparti europee – commenta un altro ambasciatore. – Avranno bisogno di grandi sforzi di persuasione”.

Traduzione di Enrico De Simone

Tratto da Washington Post