Afghanistan, contro il traffico di droga servono sicurezza e stabilità

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Afghanistan, contro il traffico di droga servono sicurezza e stabilità

Afghanistan, contro il traffico di droga servono sicurezza e stabilità

14 Novembre 2009

Oltre ai motivi politici – evitare il collasso di uno stato in preda all’anarchia – e ai motivi militari – impedirvi l’instaurazione di regimi islamici integralisti di supporto al terrorismo internazionale –, c’è un’altra ragione fondamentale per cui occorre resistere in Afghanistan, e riguarda il mondo intero: nel paese si coltiva il 90% della produzione totale di oppio del pianeta. Questa gigantesca struttura produttiva è nelle mani del nuovo organizzatissimo cartello del narcotraffico afgano comprendente una cinquantina di gruppi criminali. Oggi i narcos afgani invadono ogni nazione coi loro carichi di oppio, eroina e morfina: dalla Cina alla Russia, dai paesi arabi all’India, fino all’Occidente europeo e americano, ogni anno tonnellate e tonnellate di droga afgana arrivano a casa nostra uccidendoci.

Secondo il recente Survey September 2009 dell’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), la situazione del narcotraffico in Afghanistan, nonostante un leggero miglioramento rispetto agli anni passati, resta gravissima. Attualmente vengono coltivati a papaveri da oppio 123.000 ettari (nel 2008 erano 157.000); queste coltivazioni comprendono due terzi delle province afgane (14), con solo 20 province liberate dall’agricoltura dei papaveri (nel 2008 erano 18). Benché si sia registrato un decremento del 22% nella coltivazione del papavero, in realtà i contadini afgani hanno imparato a estrarre più oppio da ogni bulbo: mentre nel Triangolo d’Oro i papaveri rendono 10 kg di oppio per ettaro, in Afghanistan si estraggono 56 kg per ettaro, con un incremento del 15% rispetto al 2008 (49 kg/ha). Su un’area agricola totale nel paese di 77.000 ettari, la coltivazione di papaveri ne ricopre il 2,1%, che rappresenta l’82% della coltivazione mondiale di papaveri da oppio. La produzione annuale nel paese è di 6.900 tonnellate di oppio (7.700 t nel 2008), pari a un valore alla produzione di 438 milioni di dollari (730 milioni di $ nel 2008), corrispondente al 4% del PIL afgano (era il 7% nel 2008 e il 27% nel 2002), che però sale oltre il 30% del PIL considerando l’intero indotto di micro e macro economia orbitante attorno all’oppio, il quale da solo sostiene intere regioni (si pensi che il resto del PIL afgano è sostenuto solo dagli aiuti stranieri): si tratta di miliardi di dollari. Nel frattempo in parecchie zone sta aumentando la coltivazione della cannabis, che dai 50.000 ettari del 2006 è passata ai 70.000 nel 2007 ed è in continuo incremento, con una resa addirittura superiore al papavero per i costi inferiori di produzione.

L’ovvia domanda che allora viene da farsi è: ma perché non bombardiamo di napalm tutti i campi di papaveri? La ricetta, tuttavia, da sola non sarebbe non risolverebbe il problema, e anzi ne creerebbe di peggiori. Vediamo di capire il perché.

Vanda Felbab-Brown è esperta di politica estera al 21th Century Defense Initiative, centro di ricerca militare della Brookings Institution, il famoso think-tank liberal di Washington. Secondo la studiosa «gli sforzi di contrastare i talebani attraverso la distruzione delle piantagioni sono inutili e controproducenti poiché non fanno altro che cementare l’alleanza fra i questi e la popolazione. È la messa in sicurezza del territorio e dello Stato il primo punto della strategia in Afghanistan, altrimenti qualsiasi guerra al narcotraffico non sarà mai efficace». L’approccio auspicato dalla Casa Bianca in base a tali direttive è di non dare priorità agli sradicamenti (meccanici o tramite spray – costosissimi i primi, più economici i secondi, tramite glifosato), bensì d’investire innanzitutto in sviluppo sociale e sicurezza per la popolazione, al fine di poter sostituire le agricolture illegali con altre lecite, e solo in un secondo momento combattere attivamente chi fra i contadini non si adeguasse. Questo è il sistema usato con successo anche in Thailandia, dove però occorre considerare che là ci si mise… 25 anni.

In pratica, se ai contadini si distrugge l’unica loro fonte di reddito, questi andranno a ingrossare le fila di talebani e miliziani vari, da cui avranno almeno una specie di stipendio. D’altra parte, però, non è nemmeno semplice costringere gli agricoltori a seminare grano o piantare alberi da frutta al posto del papavero, in quanto, anche se fossero d’accordo, nel paese non ci sono le strutture per agricolture di questo tipo: cosa se ne fa un contadino di un raccolto di grano o di ortaggi o di frutta se non dispone né di silos né di congelatori (figuriamoci se arriva la corrente elettrica nelle regioni di cui si parla) né di strade né di treni né di sistemi di trasporto e di stoccaggio per evitare che tutto marcisca prima di riuscire a vendere al miglior prezzo? Invece l’oppio si conserva con pochissime precauzioni anche per decenni, e le grotte e il sottosuolo afgano sono pieni di tonnellate di riserve d’oppio in attesa del giusto prezzo di mercato. Ecco perché tutti i tentativi di costruire infrastrutture nel paese vengono combattuti dai talebani che vogliono mantenere la popolazione in situazioni di servitù sociale.

Si arriva quindi a una specie di circolo vizioso: per convincere i contadini a sostituire la produzione bisogna creare uno Stato sicuro libero dai talebani e dai signori della droga, eppure non si possono interrompere i processi del narcotraffico altrimenti i contadini morirebbero di fame. La situazione, poi, sta subendo una serie di mutamenti: mentre in una prima fase il contrabbando d’oppio era funzionale al finanziamento dei signori della guerra, talebani e alqaidiani in primis, ora si è passati a investire sul mercato della droga fine a sé stesso per puro scopo di lucro. I colossali guadagni che aumentano esponenzialmente a ogni passaggio della filiera, infatti, stanno provocando due conseguenze: da un lato sta diminuendo fortemente la figura del contadino povero che coltiva il suo pezzetto di terra, sostituita da quella di grandi e ricchi proprietari terrieri collusi coi lords of drug and war; questi sfruttano le popolazioni locali, spesso costrette con la forza a coltivare i campi ma più spesso indebitate e rassegnate a quest’unica fonte di reddito in un paese tanto povero e arretrato. Dall’altro lato, tale enorme massa di denaro transita regolarmente nelle banche del Golfo Persico, fra Arabia Saudita e Iran, e ciò a questi paesi non spiace di certo. Un ulteriore effetto dell’immensa disponibilità di denaro ottenuto dal mercato dell’oppio si ha nel mantenimento dell’atavica abitudine afgana alla corruzione: in questo paese dove l’analfabetismo è la regola e il senso dello Stato è incomprensibile ai più, non esiste un solo momento della vita sociale che non sia segnato dalla corruzione, dal gesto quotidiano nel villaggio tribale ai rapporti coi funzionari pubblici fino ai più alti gradi dei ministeri e del governo.

Anche l’ottimismo di Antonio Maria Costa, direttore esecutivo di UNODC, si arresta davanti alle ripercussioni della corruzione nel contrasto al narcotraffico: «Purtroppo, a fronte di un’offensiva delle forze Nato e Usa contro i narcotrafficanti, dobbiamo registrare da parte delle autorità afgane una percentuale di sequestri inferiore al 2% della produzione di oppio. Inoltre nessuno dei boss è mai stato catturato e tantomeno detenuto nella prigione di massima sicurezza di Pol-e Charkhi a Kabul». Il Dipartimento di Stato Usa – l’unico ad avere competenza nella lotta al narcotraffico insieme col governo afgano, mentre il Pentagono se ne disinteressa per focalizzarsi sulle operazioni belliche – già nel 2007 indicò al Ministry of Counter-Narcotics afgano alcuni dei maggiori gangster coinvolti, ma tra questi appena quattro, Khan Mohammad, Haji Bashir Noorzai, Mohammad Essa e Haji Baz Mohammad, sono finiti in galera, e solo perché sono stati portati direttamente nelle carceri statunitensi. Sempre più spesso viene denunciata la complicità delle forze di polizia coi narcos: per ottenere il comando di una stazione di polizia di una provincia, per esempio, basta pagare, sino a 300.000$, ma poi il profitto è sicuro e molto superiore grazie alla “tassazione” operata sul narcotraffico.

L’8 agosto 2008, Abdullah Laghmani, vice direttore dell’NDS, National Directorate for Security, aveva denunciato il coinvolgimento di membri del parlamento afgano nella produzione e nel traffico di droga, dichiarando di possederne le prove: il 2 settembre scorso Laghmani è stato ucciso. Il 24 settembre 2007, The Times scriveva che attorno a Karzai si è creata una narco-cleptocrazia che fa a capo al fratello Ahemd Wali, e che l’intero paese, ministeri e magistratura compresi, sono corrotti, tanto che i narcos arrestati vengono subito scarcerati al pagamento di tangenti.

Sulla questione, abbiamo intervistato il Dipartimento di Stato americano, e l’imbarazzo traspare anche nelle parole di Susan Pittman, Senior Public Affairs Officer al Bureau of International Narcotics & Law Enforcement: «Molte voci affermano il coinvolgimento della famiglia del presidente Karzai ma nessuna finora è stata provata. Il governo dell’Afghanistan ha segnato alcuni notevoli successi nel perseguire i narcotrafficanti, ma è indubitabile che il susseguente rilascio dei gangster mina il lavoro dei dipartimenti antidroga». In realtà, come testimonia ancora Vanda Felbab-Brown, «gli sforzi compiuti dalle forze di sicurezza afgane ottengono il risultato opposto: vengono eliminati i piccoli mercanti di droga, mentre viene consolidato il potere dei ricchi e potenti latifondisti impegnati nel narcotraffico in collusione con talebani e al-Qaida».

Se arrivare ad avere un governo afgano responsabile e serio è un problema di cui ci occuperemo in altra sede, riguardo, invece, al narcotraffico l’unico dato confortante è che la coltura dell’oppio in Afghanistan non è radicata – come si è sostenuto – nelle tradizioni secolari del paese, ma è stata introdotta massicciamente solo negli ultimi dieci anni, quindi sarebbe possibile ritornare a coltivazioni alternative, a patto di sostenere i contadini e proteggerli dai talebani. In definitiva, il problema principale in questo paese è il controllo del territorio sotto il profilo della sicurezza: nel rapporto UNODC Winter 2008 si evidenzia come nei villaggi con sicurezza assente si coltivi oppio nel 70% delle aree, mentre dove la sicurezza è buona l’agricoltura di oppio non supera il 10-20% delle aree. Soltanto permettendo alla popolazione di potersi ribellare alle imposizioni schiavistiche di narcos, talebani, terroristi islamisti e servizi segreti stranieri si potrà cominciare a costruire una nazione con strutture moderne e attività lecite. Il presidio del territorio, quindi, è essenziale.

Ma come si fa a controllare militarmente un intero stato quando i comandanti americani non riescono a convincere la Casa Bianca a inviare nuovi contingenti, l’Europa fa solo finta di esserci, e il resto del mondo se ne disinteressa? Abbiamo rivolto queste domande a Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa: «L’approccio militare è fondamentale, senza di esso non può esserci difesa del territorio, e quindi sicurezza sociale. Senza questa sicurezza è utopistico pensare di costruire infrastrutture urbanistiche e civili per dare alternative alla popolazione: i talebani e i signori della guerra le distruggerebbero subito o le utilizzerebbero per i propri fini, uccidendo chi vi si opponesse. Non è un caso che dove si ottengono forti risultati contro il narcotraffico siano le regioni in cui i marines americani e inglesi combattono con maggior tenacia il nemico, sradicando, però, anche i campi d’oppio, mentre le province occidentali sotto il comando italiano, dove non si compiono interventi contro la produzione di oppio, vedano addirittura aumentati i raccolti (ndr: a Badghis dal 2008 al 2009 la coltivazione d’oppio è salita dell’822%, a Herat del 109%) e l’insicurezza. Il problema oggi è l’inconcepibile dilettantismo della Casa Bianca nella politica estera, segno d’una grande immaturità politica di Obama che evidentemente paga la sua pressoché nulla esperienza internazionale. Dimostrare tutta questa incertezza sull’invio di truppe in Afghanistan provoca ripensamenti anche nei paesi alleati e disastri operativi sul campo: la recente massiccia offensiva pakistana contro i talebani, per esempio, avrebbe dovuto avere una parallela pressione americana dall’altra parte della frontiera, secondo la strategia di Bush; invece il mancato invio di truppe l’ha impedito e resa molto meno efficace. Purtroppo non si può prescindere dalle operazioni militari per costruire questo paese, e con gli slogan di Obama si possono vincere le elezioni ma non certo i talebani: è come se si fosse voluto attuare il piano Marshall prima di sconfiggere i nazisti».

Dare sicurezza alla popolazione, pertanto, è il primo punto per contrastare il mercato dell’oppio, colpendo al medesimo tempo e con la medesima intensità narcos, talebani, al-Qaida, banditi comuni e guerriglieri vari. Per farlo occorre controllare il territorio con una presenza militare costante e potente: tentare di eludere questo assunto provocherà soltanto fallimenti. Ecco il why we fight in Afghanistan.