Marco Biagi, un giurista di frontiera che continua a orientare il diritto del lavoro
15 Marzo 2010
Venerdì prossimo sarà l’ottavo anniversario di quel tragico 19 marzo del 2002, quando un commando di assassini brigatisti attese Marco Biagi sul portone di casa e l’uccise a sangue freddo. La moglie e i figli udirono il rumore dei colpi di pistola e in un attimo capirono di essere rimasti soli. Oggi, la figura e l’opera di Biagi sono state ampiamente rivalutate.
Il suo insegnamento continua ad essere vivo e fecondo e ad orientare l’evoluzione del diritto sindacale e del lavoro, grazie all’azione del ministro Maurizio Sacconi e di quel pool di amici collocati dal destino (che non è sempre cinico e baro, ma a volte giusto) in posizioni-chiave in Parlamento o al ministero del welfare.
Sono stati ripristinati quegli istituti della legge a lui intestata che nella passata legislatura furono abrogati in nome di un ingiustificato furore ideologico; molte delle recenti novità, poi, sono il frutto di quell’elaborazione – attenta a risolvere problemi pratici – che era la mission principale di Marco. Da ultimo, il "collegato lavoro" ha realizzato – con le norme sulla conciliazione e l’arbitrato – un pezzo fondamentale di quel diritto vivente a cui era proteso il suo impegno.
Ma chi era Marco Biagi? La migliore definizione è la seguente: un "giurista di frontiera", attento a quanto si muoveva nel limbo dei nuovi rapporti di lavoro. Mentre i suoi colleghi contrassegnavano le aree grigie del mercato del lavoro con la classica scritta "hic sunt leones", Marco parlava apertamente di "diritto dei disoccupati" cioè di "quella fragile trama normativa esistente per coloro che non hanno ancora un lavoro, che lo hanno perso o che sono occupati nell’economia sommersa", fino a spingersi a varcare il confine della "flessibilità normata", nella consapevolezza che il primo dovere del giurista è di portare la "regola" laddove non esiste: una regola che serva alla società reale e che non pretenda di fare il contrario, di costringere cioè i processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili e perciò condannate ed essere violate, neglette od eluse.
A pensarci bene la capacità innovativa di Biagi somigliava a quella del bambino della fiaba che non esita ad affermare platealmente che il "re è nudo", mentre tutti gli altri continuano ad elogiare la morbidezza delle sete e l’eleganza della foggia di un vestito inesistente. Marco fu protagonista, a cavallo tra la fine del "secolo breve" e l’inizio di quello nuovo, di un’operazione d’innovazione culturale così radicale da incontrare l’ostilità dell’accademia che vedeva posti in discussione certezze tanto antiche da essere ormai solo dei pregiudizi.
Biagi è stato un precursore, in quanto ha compreso, tra i primi, che stava sorgendo ed ampliandosi una "zona grigia" nel mercato del lavoro che non costituiva un fenomeno degenerativo ma aveva delle caratteristiche proprie, verso la quale stava indirizzandosi l’evoluzione (magari anche l’involuzione) dei rapporti di lavoro. Mentre la dottrina tradizionale si sforzava di ricondurre tali processi (considerati anomali se non proprio truffaldini) all’interno di una visione classica del lavoro dipendente standard, Biagi cercava di intravederne e studiarne i presupposti giuridici che li rendevano non solo legittimi, ma utili se regolati e resi trasparenti.
Un giurista di frontiera, dunque, sempre pronto a ritentare la spedizione alla ricerca del mitico "passaggio a Nord Ovest" tra lavoro dipendente ed autonomo, sempre interessato a varcare quei confini verso l’ignoto del "lavoro diverso e dei diversi", nella consapevolezza che ci fosse uno spazio da occupare.
Biagi cominciò studiando la figura del socio-lavoratore di una cooperativa (al tema dedicò una monografia): una sorta di Giano bifronte insieme padrone e dipendente di se stesso. Ben presto si accorse che questo rapporto non si poteva definire secondo un profilo di carattere generale. E che la concreta realtà dei fatti era tale da imporre il proprio punto di vista alla stessa norma astratta, oscillando – in rapporto all’effettivo grado di partecipazione alla vita dell’impresa – tra la reale presenza del profilo di socio e la finzione a copertura di un rapporto di lavoro subordinato.
Non abbandonò mai quel terreno di ricerca che aveva intrapreso da giovane studioso, tanto che le più recenti normative in materia di lavoro nelle cooperative ricevettero da Biagi un contributo risolutivo. Ma l’innamoramento dell’età matura del professore bolognese fu quello che lui chiamava "il diritto dei disoccupati". In altre parole, aveva compreso quanto il lavoro (qualunque fosse) potesse svolgere una funzione inclusiva nella società e nel mondo dei diritti. Quel lavoro che, nel disegno dei Padri costituenti, non è solo un diritto, ma un preciso dovere dei cittadini. Alla luce di questi principi, non esiste – lo si è predicato per anni – una cattiva occupazione. “La vera causa della concorrenza sleale – ha scritto Alessandra Servidori nel libro Mercato del lavoro e legge Biagi (Rubbettino 2008) – è data da un esercito di 4 milioni di lavoratori in nero, causa ed effetto spesso di una regolamentazione e di un apparato legislativo/burocratico”.
Che altro aggiungere? Se è vero che i morti ci osservano dai verdi pascoli del Signore, credo che Marco, ora raggiunto dal padre Giorgio, sia sereno e soddisfatto. I suoi figli sono due meravigliosi ragazzi impegnati – con successo – nello studio del diritto sulle orme del padre, guidati dalla moglie Marina, che ha saputo raccogliere e motivare gli allievi e i collaboratori del marito in una Fondazione prestigiosa e qualificata sul piano internazionale, fucina di giovani talenti nel campo della ricerca. Il giornale della sua città ha intestato a Marco Biagi un premio annuale rivolto alle associazioni che operano nel campo del sociale.
Si dice che la morte sia una partita di pallone che gli altri giocano senza di noi. Se è così, Marco è ancora vivo. Non solo nella memoria, ma nelle opere.