Il Cile risorgerà presto dal terremoto: come e perché
06 Marzo 2010
Venerdì 26 febbraio un minuto di terrore e panico ha scosso il Cile. Per sessanta secondi la terra ha tremato con un’intensità di 8.8 gradi Richter, seicento volte più forte di Haiti, una potenza altissima anche per un Paese abituato ai sismi. Migliaia di cileni hanno sentito la terra tremare sotto i loro piedi, e si sono rifugiati in strada schivando ponti, edifici, alberi che cadevano sotto le scosse del quinto terremoto più forte della storia. Secondo il presidente, Michelle Bachelet, i morti sono 795, mentre si contano oltre quattro mila senzatetto. Il bilancio – purtroppo – sembra destinato a salire: i dispersi sono ancora centinaia e secondo le autorità locali, nella città di Concepciòn, un palazzo di quindici piani si è accartocciato su se stesso, portando sotto le macerie almeno altre cento persone. Molto probabilmente, però, non si arriverà mai ai tre mila morti e ai due milioni di senzatetto del terremoto di Valdivia del 22 maggio 1960, ancora oggi un incubo nella memoria nazionale. Allora, un sisma di magnitudo 9.5 della scala Richter provocò un’onda di tsunami alta dieci metri che si abbatté sulle coste, devastando interi villaggi del Paese. E altrettanto lontani si è dalla tragedia di Haiti: nulla a che vedere, infatti, con le 220 mila vittime provocate dal terremoto dello scorso 12 gennaio.
Le ragioni di questa miglior tenuta al sisma sono diverse. In Cile l’epicentro si è collocato nell’oceano Pacifico, al largo della costa di Maule, 325 chilometri dalla capitale Santiago e 80 da Concepciòn, la città più colpita dal terremoto insieme a Chillan e Talca. Mentre ad Haiti l’epicentro era localizzato ad una profondità di dieci metri, a soli 16 chilometri da Port-au-Prince. Inoltre, i cileni sono consapevoli di vivere in un Paese esposto ai terremoti. Già nell’aprile dello scorso anno una scossa di magnitudo 6.3 Richter colpì le coste settentrionali, vicino la città di Tarapaca, mentre nel 2005 un violento sisma con un’intensità di 7.9 gradi scosse il Paese, provocando undici morti e gettando nel panico la popolazione. Proprio per questo in Cile i livelli di corruzione sono piuttosto bassi e i costruttori edili cercano di rispettare la normativa antisismica, risalente persino al 1928, e seconda soltanto a quella californiana.
Ma ci sono anche buoni motivi economici e politici che ci fanno pensare (e sperare) ad una prossima ripresa di Santiago. Come ha ricordato Roberto Ampuero, scrittore cileno trapiantato ormai da molti anni negli Stati Uniti, il Cile è il paese più prospero del Sudamerica, con un introito medio di 15 mila dollari all’anno. Quando nel 1973 il generale Augusto Pinochet spodestò il governo di Salvador Allende, l’economia di Santiago stava vivendo una profonda crisi: l’inflazione aveva raggiunto un tasso annuo del 1000 per cento, le riserve di moneta estera erano completamente vuote, mentre il prodotto interno lordo era sceso ai minimi storici, inferiore persino a quello di Perù e Argentina. Nel 1975, dopo un breve colloquio, l’economista americano e premio Nobel Milton Friedman inviò una lettera al dittatore cileno dove gli suggeriva otto proposte, conformi alle proprie teorie economiche, per risollevare la situazione del Paese. Pinochet decise quindi di adottare alcune riforme di stampo prettamente liberista, come la privatizzazione delle imprese statali, la libera impresa e gli investimenti esteri. E qualche anno dopo continuò ad affidarsi agli economisti cresciuti alla scuola di Friedman, i così detti “Chicago Boys”, che assunsero i ruoli chiave nell’economia del Paese. La mossa di Pinochet si rivelò la più giusta. Nel 1990, infatti, il pil era cresciuto di oltre il 40 per cento, mentre i cileni erano diventati i più ricchi dell’America del Sud. Ancora oggi il Cile è un paese in ascesa economica, (nonostante non possieda materie prime, se non il rame), nel settore del terziario avanzato, sconosciuto al resto dell’America Latina. Inoltre, può contare, come estrema eredità di Pinochet, sull’esistenza di un forte e diffuso ceto medio, essenziale per la ricchezza e la forza propulsiva del Paese. Non è un caso che a Santiago non esistano bidonville o favelas: ragione in più che ha permesso di ridurre le vittime del sisma.
C’è poi da considerare che Santiago, diversamente da Haiti, è una “working democracy”, come scriveva Anne Applebaum sul Wall Street Journal qualche giorno fa. Il 17 gennaio scorso, Sebastian Piñera Echenique, rappresentante della coalizione di centro destra, la Coalición por el cambio, ha vinto le elezioni presidenziali, superando il candidato del centro sinistra Eduardo Frei Ruiz-Tagle, democristiano e leader della Conceratión de partidos por la Democrácia. Così mentre ad Haiti, il presidente René Preval riceveva il collega brasiliano, Luiz Lula da Silva, e la missione Onu collassava, il Cile si è ritrovato ad avere, dopo il terremoto, ben due governi. La presidente Michelle Bachelet si è mobilitata con estrema energia, parlando alla Tv e spedendo ministri e sottosegretari nelle zone disastrate. Tutto ciò in piena sintonia con il “collega” Piñera, pronto ad insediarsi l’11 marzo prossimo. Il nuovo presidente di centro destra ha continuato a parlare alla Tv, a designare i ministri del suo governo, figure indipendenti, provenienti anche dalle fila del centro sinistra, senza dimenticarsi di affermare: “Faremo un governo di unità nazionale che abbatterà i muri”.