Sul caos delle liste del Pdl si aggira il fantasma della Prima Repubblica
10 Marzo 2010
L’incresciosa vicenda della lista del PdL nella circoscrizione di Roma mostra quanto, nel nostro paese, la politica continui a pagare un pesante tributo alla nefasta eredità della prima repubblica. L’episodio (che presenta dei risvolti fattuali davvero incredibili) in sé è grave, ma circoscritto. In sostanza si tratta, in primo luogo, della colpevole negligenza di alcuni responsabili locali, che va risolta facendo cadere qualche testa. Anche le conseguenze politiche sono, tutto sommato, limitate. Una brutta figura nei confronti degli elettori di un determinato territorio, impossibilitati a dare il voto a un determinato partito.
Perché allora montare un caso nazionale, innervosirsi, cercare affannosamente una soluzione altra da quella prevista dall’ordinamento, cioè il ricorso legale nelle sedi deputate? A motivare un simile atteggiamento non è neanche la, comprensibilissima, volontà di rimediare a una brutta figura. Occorre invece guardare a una più generale distorsione del giudizio politico che non dipende da una volontà soggettiva. Il fatto è che queste elezioni regionali vengono considerate da tutti gli attori politici (l’opposizione ancor più della maggioranza) una sorta di test per valutare il consenso al governo nazionale.
Si tratta di un lascito inerziale, una vera e propria partita passiva, della prima repubblica. In quella fase di democrazia bloccata esisteva una impropria equiparazione di fatto tra i vari tipi di consultazioni elettorali. Per cui il voto a un’elezione amministrativa poteva avere delle ricadute negative sulle compagini governativa (crisi, rimpasti). Dopo oltre quindici anni di democrazia dell’alternanza, in cui i governi sono designati dal voto popolare, l’attitudine assunta rispetto alle elezioni regionali mostra che i condizionamenti della costituzione materiale dorotea continuano a pesare oltre il dovuto.
Se riandiamo per un attimo al recente passiamo troviamo tracce consistenti di questa influenza negativa sulla durata dei governi e, più in generale, sulla stabilità del quadro politico. Nel 2000, l’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema, credendo di fare un gesto di sensibilità democratica, si dimise dopo le regionali, perché il suo partito aveva riportato un risultato negativo. Certo, in quel caso il nesso tra voto popolare e governo era già stato infranto dall’infausto ribaltone di fine 1998, che aveva defenestrato il governo Prodi, legittimamente investito dal voto popolare. Pure, il gesto di D’Alema non aiutò il percorso della transizione, inserendo un ulteriore elemento di opacità nel rapporto tra elezioni politiche e governo. Ancora nel 2005, dopo le regionali, i capricci del Udc imposero il varo di un secondo ministero Berlusconi, facendo tramontare l’agognato traguardo di un governo di legislatura. Adesso, dopo gli ultimi convulsi avvenimenti, il fantasma di una crisi politica torna ad aleggiare sullo sfondo delle elezioni regionali nel caso ci sia un arretramento di qualche punto percentuale.
La cosa paradossale è che i cittadini comuni non hanno di queste preoccupazioni, ma si regolano in base a criteri sanamente empirici. La maggioranza degli elettori, in occasioni delle elezioni regionali non sceglie in base a calcoli di schieramento, ma si orienta sulla base del candidato a presidente della regione. Si ha quindi una situazione schizofrenica. Da un lato nei palazzi romani si fanno calcoli esoterici, che poco hanno a che fare con la situazione amministrativa delle singole regioni. Dall’altro gli elettori, spesso anche persone quasi per nulla interessate alla politica, in vista delle regionali concentrano la loro attenzione sull’arena locale e si regolano di conseguenza.
Non sappiamo come andrà a finire la telenovela della lista romana. Speriamo, da qui alla fine del mese, di non doverne vedere altre duecento puntate. Due cose però ci paiono necessarie e urgenti. In primo luogo riaffermare il carattere non politico del voto di fine marzo. In altri termini, quale che sarà il risultato di queste votazioni il governo deve continuare per la sua strada, forte della legittimazione ricevuta nell’aprile del 2008 (la sola che conti). In secondo luogo, passata la tornata elettorale occorre mettere mano con urgenza a quel minimo di riforma costituzionale che consenta di chiudere una transizione ormai troppo lunga. Non vorremmo vederla naufragare per un brutto riflesso doroteo.