Con la “teoria dello sciame” forse sconfiggeremo Al Qaeda

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Con la “teoria dello sciame” forse sconfiggeremo Al Qaeda

11 Marzo 2010

I terroristi, consci del fatto che non potranno mai prevalere nel numero, hanno sperimentato un nuovo modo di fare la guerra che permette loro di ottenere il massimo dalle limitate risorse di cui dispongono: la “tattica dello sciame” (swarming). Si tratta di una forma d’attacco eseguita da piccole unità mandate a colpire un singolo obiettivo da direzioni diverse, o più bersagli simultaneamente.

Dall’11 settembre al Qaeda ha effettuato un limitato numero di grandi attacchi – a Bali, Madrid e Londra – mentre ha condotto diverse importanti campagne impostate sulla “tattica dello sciame” in Turchia, Tunisia e Arabia Saudita, dove ha lanciato ondate su ondate di attentati nell’intento di saturare la capacità di reazione dell’avversario. In Iraq una tale strategia è stata portata avanti anche dopo il “surge”; come recentemente osservato dallo stesso generale David Petraeus, il nemico ha mostrato “una sofisticata abilità” da parte dei suoi miliziani “nell’eseguire attacchi simultanei” contro importanti obiettivi governativi.

Il più chiaro esempio di cosa sia un attacco terroristico “a sciame” è forse costituito dagli attentati a Mumbai, nel novembre del 2008, che si ritiene siano stati preparati dal gruppo Lashkar-e-Taiba. La forza d’assalto era composta da appena dieci combattenti, che si suddivisero in coppie ognuna delle quali colpì una serie di siti diversi. Ci vollero più di tre giorni per neutralizzarli – e si lamentò la perdita di 160 vite innocenti – dato che le forze di sicurezza indiane meglio addestrate per contrastare un tale genere d’emergenza dovettero arrivare da Nuova Delhi, ed erano preparate per affrontare un singolo pericolo e non una moltitudine di attacchi.

Un altro segnale dell’entrata in auge della tattica dello sciame si ebbe nell’agosto del 2008. L’incursione russa nella Giorgia, più che un sussulto della vecchia guerra fredda, ha mostrato che anche gli eserciti tradizionali possono dominare l’arte degli attacchi multidirezionali. In quell’occasione, le forze regolari russe vennero affiancate da una milizia etnica che impegnò combattimenti per tutta l’estensione dell’area di operazioni; allo stesso tempo, “attacchi a sciame” avevano luogo nel cyberspazio. In effetti, un attacco mirato a bloccare un largo numero di server, da tempo la specialità dei guerriglieri cibernetici, è una forma modernissima di tattica dello sciame. Nel caso in esame, la catena di comando georgiana venne pesantemente intralciata dagli hacker.

Gli attacchi simultanei da molte direzioni diverse potrebbero costituire l’ultima novità nell’arte della guerra; eppure, hanno un’antica discendenza. La guerra tribale tradizionale, che sia tra nomadi armati di arco e frecce o uomini armati di un semplice bastone, ha sempre presentato elementi di tattica dello sciame. L’apice di questo modo di combattere probabilmente si ebbe nel Tredicesimo secolo con i mongoli, che avevano dato un nome a questa dottrina: “stormo di corvi”. Quando l’attacco era indiretto, ossia portato non da cavalieri che caricavano il nemico bensì da arcieri che scoccavano a distanza per creare una pioggia di frecce diretta su uno bersaglio massiccio, i khan parlavano di “stelle cadenti”. Con tali tattiche, i mongoli conquistarono il più grande impero che il mondo abbia mai visto, e ne rimasero padroni per alcuni secoli.

L’attacco a sciame perse il suo fulgore con l’entrata in scena delle armi da fuoco, nel XV secolo, e con la conseguente esigenza di massimizzare il volume di fuoco. L’era industriale fu un altro fattore di rafforzamento del concetto di massa, e la meccanizzazione favorì le grandi manovre aggiranti piuttosto che i piccoli attacchi a sciame. Però adesso, in un’era in cui il mondo è strettamente interdipendente e trabocca di tecnologia dell’informazione, anche piccole unità di combattenti possono provocare gravi danni. Come recita un vecchio proverbio mongolo: “Con quaranta uomini puoi sconvolgere il mondo”. Si consideri quel che riuscì a fare al Qaeda con la metà di quel numero, l’11 settembre del 2001.

L’argomento è stato ripreso dal celebre stratega inglese B.H. Liddell Hart nella sua biografia di T.E. Lawrence, a buon diritto un maestro dell’arte dello sciame. Liddell Hart, che scriveva nel 1935, predisse che si arriverà a un momento in cui “il vecchio concentramento di forze verrà probabilmente rimpiazzato da un’ubiqua e non individuabile distribuzione di forze, che esercita la sua pressione su tutto, ma non può essere contrattaccata da nessuna parte”.

Adottare la tattica dello sciame sarebbe rifarsi al passato, ma in un momento in cui ben poche organizzazioni militari sono in grado o hanno voglia di riconoscere il suo ritorno in auge. Il problema è che le implicazioni di questa tattica – in special modo, la possibilità da parte di piccole unità combattenti di ottenere risultati sorprendenti se usate “a sciame” – sono profondamente destabilizzanti. Il cambio più radicale si potrebbe avere negli eserciti permanenti, che potrebbero essere sensibilmente ridotti nelle dimensioni se appositamente riconfigurati e addestrati per combattere secondo il nuovo concetto. Invece di inviare continuamente rinforzi, la risposta standard di una “forza sciame” sarebbe quella di procedere rapidamente, con pochi uomini, e colpire gli attaccanti in diversi punti. In futuro, ci vorrà uno sciame per sconfiggere uno sciame.

Quasi vent’anni fa, iniziai un dibattito sui network che sfociò in un’imprevista amicizia con il viceammiraglio Art Cebrowski, il moderno pensatore di strategia che verrà probabilmente ricordato come un nuovo Alfred Thayer Mahan, il grande apostolo della potenza navale americana. Fu il primo nelle gerarchie del Pentagono a mostrare un genuino interesse per le mie idee circa la necessità di sviluppare “reti di combattimento”, e aderì all’idea di creare una vasta rete di linee di comunicazione sussidiarie tra chi reperisce informazioni e chi preme il grilletto.

Dove non fummo d’accordo, fu sulle potenzialità di quei network. Cebrowski riteneva che la “guerra dei network” potesse costituire un potenziamento, in un futuro più o meno prossimo, degli strumenti già esistenti, incluse le portaerei. Io pensavo invece che i network implicassero una marina militare strutturata in modo radicalmente diverso, fatta di battelli piccoli e veloci, parte dei quali controllati a distanza. Cebrowski, ritiratosi nel 2005, ha chiaramente vinto la disputa, visto che l’US Navy è restata una forza basata sul principio “pochi-grandi”; è anche vero che è sempre più “in rete”. Con un implicito riconoscimento alla idee mie e di David Ronfeldt, la Marina ha inaugurato anche un Netwar Command.

La tattica dello sciame ha guadagnato alcuni sostenitori. Più di tutti si segnala il tenente generale dei Marines Paul Van Riper, che ha utilizzato tattiche a sciame nell’ultimo grande “gioco di guerra” del Pentagono, “Millennium Challenge 2002”, con le quali ha affondato diverse portaerei in apertura dell’immaginario conflitto. Ma invece del riconoscimento di trovarsi di fronte a qualcosa di radicalmente nuovo, ciò che ne scaturì fu un ordine in base al quale gli arbitri riportarono a galla le portaerei, e il costoso gioco – il cui prezzo ascese a qualche centinaio di milioni di dollari – continuò. Van Riper se ne andò. Ancora oggi qualcuno, nell’apparato militare americano, persegue l’idea dello sciame, per lo più con la speranza di impiegare un gran numero di piccoli aerei senza pilota in combattimento. Ma le abitudini militari e gli interessi istituzionali continuano a far sì che la preferenza per un classico ammassamento di truppe o di mezzi sia ben più grande che quella per uno “sciame”.

Cosa accadrebbe se le alte sfere un giorno si svegliassero, e decidessero di prendere sul serio le teorie sulla guerra delle reti e sulla teoria dello sciame? Se mai lo facessero, è probabile che il flagello del terrorismo diventerebbe un fattore assai meno importante dello scenario mondiale. Un apparato militare rimodellato in tal guisa sarebbe più piccolo e più pronto a reagire, meno costoso ma più letale. Il mondo diventerebbe assai meno vulnerabile a molte delle violenze che lo hanno piagato. “Networking” e “swarming” sono le due chiavi, rispettivamente organizzativa e dottrinale, al rompicapo strategico dei nostri tempi, che aspetta ancora una soluzione.

Un apparato militare Usa interconnesso e capace di “sciamare” avrebbe bisogno di assai meno effettivi – si potrebbero facilmente tagliare i due terzi del personale, rispetto ai due milioni in servizio oggi – ma sarebbe strutturato in un gran numero di piccole unità interforze. Il modello per un intervento militare sarebbe costituito dai duecento “soldati a cavallo” delle Forze Speciali che sconfissero al Qaeda e i talebani in Afghanistan, verso la fine del 2001.

Tali unità si potrebbero dislocare rapidamente, con efficacia letale, e si manterrebbe un’ampia riserva di reparti per rilevare le “prime ondate” e affrontare nuove crisi. In mare, invece di concentrare la potenza di fuoco in una manciata di grandi portaerei sempre più vulnerabili, la US Navy dovrebbe distribuire le sue capacità operative tra molte centinaia di piccoli battelli equipaggiati di armi intelligenti. I sottomarini, in virtù delle doti di invisibilità e multifunzionalità, potrebbero restare; le portaerei, no. Nei cieli, gli stormi dovrebbero ridursi nelle dimensioni ma aumentare nel numero, ognuno disponendo di appena una manciata di velivoli. Va da sé che l’interconnessione (“networking”) fa sì che questa miriade di piccoli pezzi sarebbe in grado di operare congiunta, “sciamando” sui nemici, grandi o piccoli che siano.

Un tale cambiamento è fattibile? Assolutamente sì. Grandi riduzioni nell’apparato militare Usa non sono niente di nuovo. A parte la massiccia smobilitazione seguente la Seconda guerra mondiale, dopo il Vietnam le forze operative vennero ridotte del 40% in pochi anni, e di un ulteriore terzo dopo la fine della guerra fredda. Ma la chiave del problema non è tanto nel tagliare, quanto nel ridisegnare e nel ripensare. Ma cosa accadrà qualora prevalga lo status quo, e questa nuova ondata di cambiamenti nella strategia mondiale venisse ignorata o fraintesa? In tal caso andremmo incontro a un fallimento, che ci costerebbe tantissimo.

Il modo più probabile in cui può concretizzarsi la catastrofe è che i network terroristici sopravvivano abbastanza a lungo da procurarsi armi nucleari. Anche soltanto una manciata di testate atomiche darebbe a Osama bin Laden un’enorme forza ricattatoria, dato che un network, al contrario di uno stato, non può essere oggetto di una rappresaglia. Il concetto di deterrente finirebbe in frantumi. Se mai ci sarà un Napoleone nucleare, questo emergerà dai ranghi del terrorismo internazionale.

Nell’ambito dell’apparato militare Usa, il pericolo è che gli alti comandi si adagino nel fatalismo determinato dalla convinzione secondo cui i leader tanto del Congresso quanto dell’industria sventerebbero qualunque tentativo di riforma radicale. Sin dai primi anni Novanta ho ascoltato innumerevoli volte una riserva del genere, ripetuta come un mantra attraverso tutta la scala gerarchica, fino agli Stati maggiori riuniti. La poderosa macchina bellica degli Stati Uniti sarebbe un Gulliver legato e immobilizzato da politici e affaristi.

Ironia della sorte, l’apparato militare Usa non è mai stato in posizione migliore come adesso per fare accettare un vero cambiamento. Nessuno schieramento al Congresso può permettersi di essere dipinto come un ostacolo al progresso strategico, e quindi, qualunque cosa chieda il Pentagono, la ottiene. Accade come per i “contractor” della difesa, i quali, lungi dal dettare l’agenda, sono anche troppo disposti a dare esattamente quello che i loro clienti militari vogliono (invece di dare, magari, qualcosa di meglio). Se le forze armate americane chiedessero armi più piccole e intelligenti con cui sviluppare tattiche a sciame, le avrebbero. 

Al di là dei confini degli Stati Uniti, altri eserciti stanno iniziando a pensare in termini di “molti e piccoli”, stanno iniziando a porre l’accento sul “trovare”, e stanno imparando le tattiche “a sciame”. La strategia navale cinese si sta chiaramente muovendo in questa direzione, così come le forze di terra russe. Ovviamente, chi è davanti a tutti in questi sviluppi sono i network terroristi, non soltanto al Qaeda. Hezbollah ha dato una più che apprezzabile dimostrazione delle tre regole di cui sopra nel conflitto con Israele del 2006, il primo laboratorio della guerra di stati contro network – nel quale il network si difese più che bene.

Se l’apparato militare Usa non riuscisse a fare questo passo avanti nel convincersi che c’è bisogno di un profondo cambiamento, allora gli si potrebbe dare, diciamo, una spintarella riducendo il budget per la difesa – per quanto si tratti di un settore al quale il presidente Obama non vorrebbe estendere la sua politica di austerità. Questa riduzione potrebbe esplicarsi in un congelamento dei livelli attuali di spesa, seguiti da una riduzione di, poniamo, il 10% ogni anno. Per indirizzare correttamente la riprogettazione delle forze armate, si dovrebbe dichiarare una moratoria su ogni sistema d’arma che si possa considerare “ereditato” (si pensi alle portaerei e ad altre grandi navi, ai supercaccia, ai carri armati, ecc.) in attesa che venga eseguita una revisione dei loro criteri d’impiego. Si dovrebbe evitare di assumere che le enormi somme investite nella difesa nazionale siano state spese bene.

Per molti americani convinti che avere un potente apparato militare significhi impegnare sempre più risorse e costruire sistemi sempre più grandi, il suggerimento di tagliare le spese può suonare scandaloso. Ma adottare dottrine di difesa più intelligenti può non solo migliorare l’efficacia, ma anche abbassare i costi. Uno schema simile è stato adottato ed eseguito negli ultimi decenni sia nell’industria che nell’agricoltura. Perché non dovrebbe funzionare in campo militare?

C’è un’assoluta urgenza di parlare di queste cose. Non solo la storia non è finita con la fine della guerra fredda e l’avvento del commercio globale, ma le guerre e la violenza sono continuate – anzi, cresciute – diventando un nuovo flagello postmoderno.

Suona beffardo che in un’era affascinata come mai prima dall’uso persuasivo, diplomatico della potenza, alla fine siano proprio le vecchie dinamiche ricattatorie legate alla potenza militare a dominare gli affari internazionali. Ciò non sorprende quando si tratti di stati canaglia che tentino di dotarsi di un arsenale nucleare che garantisca la loro sicurezza, né quando si parli di reti terroristiche che ripongono la propria ragion d’essere in azioni violente. Il fatto è che questa capacità coercitiva è esercitata anche da una vasta platea di nazioni grandi e piccole e in particolare dagli Stati Uniti, la cui politica di difesa, nell’ultimo decennio, ha praticamente coinciso con la sua politica estera.

Dalle guerre in Iraq e Afghanistan alle crisi con Corea del Nord e Iran, passando per le preoccupazioni strategiche legate alla sicurezza di Asia orientale ed Europa dell’est, gli Stati Uniti sono oggi pesantemente impegnati in una politica di potenza. E così continuerà a essere. Ma se i radicali aggiustamenti in strategia, organizzazione e dottrina implicati dalle nuove regole della guerra verranno ignorati, gli americani, per la difesa nazionale, finiranno con lo spendere di più e ottenere di meno. Le reti terroristiche continueranno a esistere fino a quando arriveranno a possedere la capacità di assestare un colpo nucleare, mentre altri paesi sopravanzeranno militarmente gli Stati Uniti, e concetti quali “deterrenza” e “contenimento” verranno spazzati via come foglie al vento.

E’ sempre stato così. In qualunque periodo vi sia stato un significativo sviluppo tecnologico, si sono avuti profondi cambiamenti in campo militare e nei rapporti internazionali. La storia ci dice che questi sviluppi sono stati inevitabili, ma anche che soldati e uomini di stato sono stati quasi sempre lenti nel riconoscerli – ritardi che sono costati innumerevoli tragedie. Siamo ancora in tempo per entrare a far parte delle eccezioni, come ad esempio i bizantini che, dopo la caduta di Roma, rifondarono il proprio esercito e conservarono il loro impero per altri mille anni. L’obiettivo degli Stati Uniti dev’essere quello di unirsi a coloro che, nella propria era, colsero i segnali del futuro e agirono in tempo per dominarlo, salvando il mondo dalle tenebre. (Fine)

Traduzione Enrico De Simone

Tratto da Foreign Policy