Regionali, il Cav. rompe il silenzio e manda in soffitta cavilli e carte bollate
10 Marzo 2010
Per la prima volta non parla a braccio, legge un testo. Anzi, una cronistoria. Se ne scusa coi giornalisti ma la questione è delicata e “gli italiani devono sapere”. Così Silvio Berlusconi riapre il dossier sulla lista del Pdl per Roma che il Tar prima e la Corte d’Appello poi hanno bocciato, quello sul quale lui “personalmente” ha svolto indagini “parlando e verificando” con tutti i protagonisti della vicenda.
I dettagli della cronistoria su cosa è accaduto una settimana fa negli uffici del tribunale romano li scandisce durante la conferenza stampa convocata nel quartier generale del Pdl – presente la candidata alla presidenza del Lazio Renata Polverini insieme ai dirigenti nazionali e regionali del partito – che serve essenzialmente a due cose. La prima: dimostrare, dati alla mano, che ai delegati incaricati di consegnare lo “scatolone” con la documentazione è stato impedito di farlo dalla “gazzarra dei radicali” ma anche dall’eccessivo fiscalismo dei magistrati (il presidente dell’ufficio centrale circoscrizionale elettorale Durante e la dirigente Argento) e dei funzionari i quali, oltretutto, non avrebbero registrato la presenza dei delegati di lista all’interno degli uffici entro il temine massimo previsto dalla legge (mezzogiorno).
La seconda: ristabilire la sintonia col suo popolo e riportare il confronto dalle aule dei tribunali alla politica. Insomma, un cambio di passo che il Cav. vuole imprimere a una campagna elettorale che da dieci giorni è appesa alla guerra dei ricorsi e della carte bollate e che “giustamente, i cittadini non comprendono”. Non a caso insiste su un punto: da questo momento in poi lasciamo agli avvocati i ricorsi, andiamo avanti con la politica. Come? Con “le nostre idee, i valori, i programmi e i candidati”, rimarca Berlusconi ma pure con quella “grande mobilitazione di popolo” che animerà la manifestazione nazionale in difesa del diritto di voto, il 20 o il 21 marzo a Roma, alla quale la macchina organizzativa del partito sta già lavorando. Un ritorno alla piazza, tra la gente, non per contestare “ma per proporre, per chiamare i candidati presidenti del Pdl a un patto con gli elettori che passi da un impegno preciso su temi concreti, dal piano casa, alla lotta contro la burocrazia, all’ambiente”.
Ma in piazza col Cav. non scenderà Gianfranco Fini, presidente della Camera e socio di maggioranza del Pdl. E’ lo stesso Fini ad annunciarlo rispondendo alle domande dei cronisti. Non ci sarà perché “il presidente della Camera non partecipa a manifestazioni in campagna elettorale organizzate dai partiti”, spiega glissando poi sul quesito successivo e cioè se condivide o meno l’iniziativa alla quale il Cav ha dato il via libera. Un atteggiamento che nelle file pidielline viene letto come l’ennesima presa di distanza, simile al silenzio sul pasticcio liste nel Lazio, la riprova “che qualcosa tra i due si è rotto”, forse in maniera irreversibile. Tanto che sono in molti a ipotizzare una “separazione” dopo il responso delle urne regionali, soprattutto a seconda di come il responso sarà. Su Fini il premier è lapidario: “Se non sbaglio Fini è il presidente della Camera , è la terza carica dello Stato. Questa è la mia risposta”. Certo, il ruolo istituzionale, ma il tono con cui il Cav. mette in fila solo poche parole e l’espressione del viso con cui le pronuncia fanno pensare più all’intenzione di non aggiungere ulteriori motivi di frizione nei confronti di Fini e nel clima già arroventato di questi giorni.
Del resto, Berlusconi lo conferma quando fa quadrato sui dirigenti incaricati di depositare in tribunale la lista del Pdl sottolineando che in tutta questa vicenda “non vi è stata alcuna responsabilità riconducibile ai nostri dirigenti e ai nostri funzionari”. Un discorso che vale anche per il dopo voto? Adesso nessuno sembra intenzionato ad aprire rese dei conti vere e proprie nel Pdl romano, ma è chiaro che se a vincere nel Lazio sarà Emma Bonino, ciò potrebbe accelerare quella che per ora appare come un’idea (per alcuni pidiellini un auspicio) che rimbalza tra i palazzi della politica. Come i rumors che in un’ipotesi del genere, danno Maurizio Gasparri in pole position a commissario del partito locale, anche se lui nega preferendo ricondurre il discorso alla mobilitazione per vincere la sfida con la candidata radical-pd.
Un fatto è certo. Anche stavolta il Cav. ci mette la faccia, convinto com’è che nonostante tutto nel Lazio la partita non è persa, tutt’altro, e che la sinistra parte con “un vantaggio indebito”, più o meno come si usava “nelle democrazie popolari sovietiche dove si preferiva correre da soli”. E anche senza lista del Pdl – se sarà questa la “sentenza” definitiva dei ricorsi già presentati al Consiglio di Stato -, l’obiettivo sarà centrato, perché in quel caso c’è la lista di Renata Polverini.
La cronistoria sul dossier Lazio. Sta in nove cartelle che il premier passa in rassegna con puntiglio “per essere preciso”. Sopra ci sono riportate orari e riferimenti che ricostruiscono le fasi salienti di quel sabato. Fin dall’inizio, alle 11,30 quando in tribunale arrivano i presentatori della lista Pdl, Milioni e Polesi. Tutto documentato, dice il Cav., da “tre dichiarazioni giurate”. Dieci minuti dopo i due delegati arrivano davanti alla cancelleria con lo scatolone contenente le firme autenticate. Polesi resta in fila mentre l’altro rappresentante del Pdl staziona nelle vicinanze. Poco dopo le 12 un componente dell’ufficio esce dalla cancelleria e chiede a chi è ancora in attesa di presentare le liste di segnalarlo alzando la mano. “Polesi alza la mano, insieme ai rappresentanti delle altre liste in attesa. Nessuno dell’ ufficio, e nemmeno delle forze dell’ordine, verbalizza o almeno identifica i presentatori delle liste in attesa”.
E’ proprio questo l’errore “marchiano” che Berlusconi denuncia spiegando che si è trattato di una “violazione della legge che prevede il completamento di tutte le operazioni di registrazione delle liste da parte di coloro che si trovavano all’interno degli uffici circoscrizionali entro l’orario stabilito”, ovvero entro mezzogiorno. Alle 12,30 circa, continua la cronistoria del premier, rientra Milioni che si era allontanato dalla porta della cancelleria, per dare il cambio al collega rimasto in fila. A quel punto ”da parte dei rappresentanti di altre liste, in particolare dei radicali, viene inscenata una gazzarra, con la scusa che fosse in corso un atto illegittimo di manomissione delle liste”. Il risultato è che i contendenti si devono spostare di qualche metro ma poi “è ai rappresentanti del Pdl viene impedito di ritornare vicino alla documentazione lasciata davanti alla porta della cancelleria”. Infine ”il presidente dell’Ufficio centrale circoscrizionale, Durante, appoggiato dalla dottoressa Anna Argento, decideva incredibilmente di escluderli, asserendo che si trovava oltre una linea segnata sul pavimento e larga un centimetro, peraltro mai comunicata ai delegati interessati che infatti circolavano liberamente”. L’ultima parte della cronistoria riguarda le fasi successive: dall’intervento del responsabile nazionale dell’ufficio elettorale del Pdl Ignazio Abrignani, al ricorso presentato alle 17, al recupero dello scatolone con le firme.
Fin qui la cronistoria. Il premier difende il decreto interpretativo varato dal governo e firmato dal capo dello Stato rinviando i dettagli a una nuova conferenza stampa, questa volta a Palazzo Chigi “nella quale parlerò dell’assoluta costituzionalità” del provvedimento. Poi accenna ai contatti con l’opposizione prima dell’approvazione del dl per dire che “la richiesta di buon senso alla sinistra è continuativa e permanente, ma normalmente non riceve risposte positive. In questa occasione il sottosegretario Gianni Letta ha telefonato al segretario del Pd Pier Luigi Bersani, avvisandolo di ciò che il governo stava progettando di fare”. Infine, un riferimento alla necessità di modificare le norme sulla presentazione delle firme per le liste elettorali, proprio per evitare che in futuro si possano ripetere casi come quello del Lazio, anche se la via non è quella di un’authority.
Ma è nello spazio riservato alle domande dei giornalisti che il clima della conferenza stampa si surriscalda quando un free-lance, Rocco Carlomagno (già noto alle cronache giornalistiche e agli addetti ai lavori per le sue azioni di disturbo in almeno due conferenze stampa, quella di Pannella che nell’occasione andò su tutte le furie e quella di D’Alema e Violante), interviene più volte interrompendo il premier che risponde alle domande dei cronisti in attesa del loro turno. E’ un crescendo di domande sul nucleare e su Bertolaso che alla fine spazientiscono Berlusconi, il quale più volte invita il giovane a rispettare i colleghi. Non basta e a questo punto il Cav. lo invita a lasciare la sala stampa. Niente da fare: interviene La Russa che cerca di calmare il free-lance che, invece, continua ad urlare anche a conferenza stampa conclusa. I tentativi vanno a vuoto e La Russa lo invita a smetterla strattonandolo per la giacca, mentre il giovane lo apostrofa "picchiatore fascista".
Alla mossa di Berlusconi segue quella di Bersani che convoca una conferenza stampa più o meno parallela sul caso liste. I toni non sono certo concilianti perché il leader Pd parte subito definendo il presidente del Consiglio un “agitatore politico” e la sua versione dei fatti una "ricostruzione fantasiosa", anche se poi prova a proporre una sorta di “disarmo bilaterale”, riferito ai ricorsi sulle liste di Pdl e Pd in Lombardia e Lazio. Una mossa che nei ranghi della maggioranza viene letta come un “trucco” per dirla con Gaetano Quagliariello, perché “mentre il ricorso del PdL nel Lazio è finalizzato a far riammettere la propria lista nella competizione democratica, quello del Pd in Lombardia avrebbe come scopo quello di far fuori il candidato avversario”.
Distanze incolmabili, dialogo impossibile, campagna elettorale al fulmicotone.