Diritti umani. A Shangai va in scena l’Expo delle violazioni
07 Maggio 2010
L’Expo di Shanghai sarà per il governo di Pechino una vera e propria dimostrazione di forza. I cinquantotto miliardi di dollari spesi per preparare l’evento serviranno a comprare l’ammirazione dei centonovantuno Paesi e delle quarantotto organizzazioni internazionali che, insieme ai settanta milioni di visitatori previsti, cammineranno sul lungo tappeto rosso preparato per accoglierli. Ma, se guardiamo sotto il tappeto, scopriamo invece sistematiche campagne di arresti ed espulsioni ai danni dei dissidenti e degli attivisti per i diritti umani di Shanghai, requisizioni forzate di palazzi e terreni, case espropriate, migranti (che hanno costruito per anni lo skyline della metropoli e i padiglioni dell’Expo) obbligati a stare fuori della città perché potrebbero “offendere l’immagine della Cina”, cittadini cacciati perché senza lavoro, persone comuni "invitate" a non andare alla cerimonia per non intralciare lo spettacolo, nuove e più feroci restrizioni sui mezzi di comunicazione.
“Le autorità temono che la comunità dissidente possa testimoniare le numerose violazioni di diritti umani ai leader mondiali e ai giornalisti presenti per l’Expo”, denuncia Sharon Hom, direttore esecutivo della Ong Human Rights in China (HRIC), che continua: “Alcuni dei residenti di Shanghai stanno ancora cercando di trovare una casa, visto che le autorità li han cacciati dalle loro dimore per far posto al mega-evento; ora, alcuni si trovano a vivere in tre persone in una stanza di cinque metri quadri (senza servizi igienici) dopo che la polizia locale e le guardie di sicurezza del World Expo hanno fatto irruzione nelle loro casa per sfrattarli. Altri, invece, non hanno nemmeno un posto dove dormire”. Secondo un rapporto di HRIC, gli sgomberi forzati sarebbero iniziati già dal 2000 e le famiglie rimaste senza una casa sono almeno diciottomila.
Tuttavia, the show must go on e al governo comunista cinese non piacciono né i fuori programma, né tantomeno beccarsi “uova marce” (così il regime etichetta i dissidenti) dagli spettatori; tanto è vero che da inizio 2010 sono spariti temporaneamente almeno cento attivisti per i diritti umani: alcuni, sono finiti nelle prigioni nere (alberghi statali, ospedali psichiatrici, case di accoglienza, scantinati, dove si è segregati per mesi senza processo o accuse formali e a completa disposizione dei carcerieri); altri confinati nei campi di rieducazione forzata tramite lavoro, i famigerati laogai. La denuncia parte ancora una volta da Human Rights in China: “Le autorità abusano dei loro poteri: si permette alla polizia di rapire e trattenere le persone per lunghi periodi di tempo senza garantire nessuna tutela legale; il nostro lavoro consiste nel mantenere i contatti tra familiari e detenuti, raccogliendo informazioni sulle loro condizioni per poi comunicarle ai media, così da far conoscere al mondo le loro storie”.
Una protagonista di queste “storie” è Mao Hengfeng, quarantanove anni, da più di dieci si batte contro la politica della pianificazione familiare (si legge aborto forzato) e quella dei licenziamenti arbitrari. È stata rilasciata a gennaio scorso dalle autorità dopo aver trascorso sette giorni in un campo di rieducazione forzata con l’accusa di "disturbo dell’ordine pubblico": ha manifestato di fronte al Congresso del popolo di Shanghai per chiedere ai suoi rappresentanti di occuparsi degli sgomberi forzati e degli abusi sui diritti umani nella città. È tornata a casa malnutrita e con segni di percosse.
Un trattamento che l’attivista cinese già conosce; infatti, vent’anni fa è stata arrestata per essere rimasta incinta per la seconda volta. Siamo nel 1988, la donna già madre di due gemelle è di nuovo in dolce attesa, ma automaticamente trasgredisce la legge; così, oltre ad essere licenziata dalla fabbrica dove lavora (a causa della gravidanza si assenta per sedici giorni) viene arrestata e condannata ai lavori forzati da scontare in un laogai; qui, sarà torturata (sospesa e legata alle caviglie, soffocata attraverso il cibo) per poi finire in vari ospedali psichiatrici dove le saranno iniettati diversi tipi di droghe e, una volta rilasciata, darà al mondo la sua terza bambina: nata con numerosi problemi di salute a causa delle droghe. Una volta in libertà, intenta una causa legale contro la fabbrica di sapone da dove era stata licenziata. Il processo durerà quindici anni e nel frattempo Mao resta incinta per la terza volta. Il giudice, allora, le consiglia di abortire promettendole di risolvere l’appello in suo favore e la donna, per continuare a mantenere la famiglia, accetta. Dopo aver abortito, però, il giudice non mantiene la parola data e Mao si ritrova senza lavoro. Delusa, arrabbiata, stanca dei soprusi del regime inizia una lotta (fatta di manifestazioni e petizioni) che le costerà altri internamenti in case di cura psichiatriche, sedute di elettroshock e diversi soggiorni nei laogai, dove vivrà in mezzo a escrementi, finestre chiuse, nuda per essersi rifiutata di indossare la divisa del carcere, più volte picchiata e torturata.
In questo modo il regime di Pechino trasforma i “cattivi soggetti” in “nuove persone socialiste”; e se poi i campi di lavoro forzato costituiscono anche una riserva di lavoro gratuito dove si produce ogni cosa (tè verde, carbone, guanti medici, attrezzature ottiche ) ancora meglio. Un trattamento, questo, che però spetta solo ai dissidenti del regime, perchè se ci si allinea lo scenario è “diverso”. Le donne, ad esempio, se sono in età fertile devono essere monitorate periodicamente e recarsi presso gli “Uffici di pianificazione familiare di zona” per dimostrare che abbiano inserita la spirale, per fare il test di gravidanza e abortire, qualora risultassero essere incinte, senza aver ricevuto il burocratico permesso.
Ma non c’è da stupirsi, se pensiamo che ci troviamo in un Paese dove ogni anno ci sono all’incirca gli tredici milioni di aborti, secondo la Ong Womens Rights Without Frontiers, e dal 1979 a oggi sono state interrotte 400.000.000 di nascite. Una nazione dove la “Commissione statale per la popolazione nazionale e la pianificazione familiare” impiega cinquecentoventimila dipendenti a tempo pieno e ottantadue milioni a tempo parziale per controllare le nascite. Un po’ di stupore, invece, lo potrebbe suscitare il fatto che all’interno dell’Onu, la Cina abbia un seggio nella Commissione per i diritti delle donne (Commission on status of women ). Stupirsi sì, ma non troppo, perché se guardiamo bene, vicino alla Cina, nella stessa commissione, troviamo pure l’Iran.