Al Tour de France vince il ciclismo pulito ma addio imprese memorabili
24 Luglio 2010
E tre. Senza ammazzare la corsa, come Hinault e Mercx, addormentala e colpisci al momento giusto, come l’esteta Anquetil: "Sono pagato per vincere, non per far sognare la gente". Trentanove secondi, il tempo d’una Gauloises senza filtro aspirata da Gino Bartali prima d’uno scatto in salita, Ginettaccio rispondeva così a Gianni Brera che lo provocava. Trentanove secondi di vantaggio sulla faccia pulita di Andy Schleck e Alberto Contador s’aggiudica per la terza volta il Tour de France. Solo trentanove secondi, erano ancora meno, cinque, contro Ricco’ al Giro d’Italia prima della cronometro decisiva, quarantasei su Leipheimer alla Vuelta, ventitré al primo Tour vinto, nel 2007; solo l’anno scorso, senza comunque dominare, arrivò con un vantaggio superiore ai due minuti.
Una Grande Boucle da "Libro Cuore", 3642 chilometri in giro per la Francia, il 97° Tour de France è quello del centenario del Tourmalet martirizzato dall’assenza di competizione tra i primi due della classifica generale. Si parlano stringendosi la mano, l’uno gli chiede scusa, l’altro proclama la loro amicizia all’arrivo. Addirittura si abbracciano: Andy che fà da gregario e tira su Contador. Vince "la" tappa del tour, sì, ma senza poesia. Verrebbe provocatoriamente da pensare che in un ciclismo pulito non ci sia spazio per l’impresa memorabile. Ma anche no, che pure in questo Tour non c’è solo prosa e qualche verso s’è visto.
L’ultimo di Armstrong e il desolante addio alla "sua" corsa, la sola che l’ha reso celebre è pure la sola che ha corso, vinta sette volte tra il 99′ e il 2005, ma la macchia per non aver partecipato ad altre gare resterà. Ha attraversato due generazioni di corridori, dal "Navarro" Indurain a Basso e Contador, passando per Ullrich, Riis e Pantani. Fino al grande ritorno sul podio l’anno scorso e la scommessa di quest’ultimo Tour. Partito al solito dalla patria dove la precedenza la dettano le due ruote senza motore, il cronoprologo olandese di Rotterdam se l’aggiudica "Spartacus" Cancellara tra i soliti veleni che accompagnano da sempre la corsa e da qualche anno Lance Armstrong. Stavolta per le soffiate del suo ex compagno di squadra Landis, insinuazioni non da poco, citando pratiche sistematiche di doping in un organismo statale, l’allora US Postal, la sua squadra.
Dalle vittorie del nostro Petacchi, il velocista dai guanti bianchi, a quelle del "bad boy" Cavendish, britannico dell’isola di Mann, vera forza della natura ma senza testa e classe per avere l’appoggio del gruppo, la prima settimana vola via tra cadute sui pavè della Roubaix e ritiri eccellenti (Franck, il fratello di Andy), temperature costantemente sopra i 40°, l’asfalto che fonde e i tubolari che si piantano. Contador fà harakiri: "Fino alla coda siamo tutti tori", tanto sa già che nell’ultima crono da 52 chilometri il destino dei rivali più agguerriti, eufemismo, è scritto. E scritto sarà. Ancora, nella seconda settimana, le lacrime di Evans ed il crollo di Armstrong sulle prime salite.
E’ solo l’ombra dell’iron man ammirato fino a quattro anni fa quello che arriva a dodici minuti dai primi, mentre l’australiano va in giallo già sapendo d’essersi rotto il gomito: soffrendo un dolore immane riparte in giallo e non dice nulla neppure ai compagni di squadra: "Non volevamo che ci attaccassero dal primo cavalcavia". Solo sulla Madeleine si capisce che non potrà ripartire il giorno seguente. E all’arrivo scoppia in un pianto diseprato che commuove tutti. E’ la tappa decisiva che rimanda ad un discorso a due la vittoria del Tour. Arrivano in cima staccando tutti Contador e Schleck. "Non mi accontento della maglia bianca", quella del miglior giovane. E subito accontentato, lo sfortunatissimo Cadel gliela cede grondante di lacrime dopo il traguardo.
A Gap Paulinho smette d’essere l’anonimo di Atene nello spint olimpico contro Bettini, e regala alla Radioshak la prima vittoria al Tour col suo capitano, re ormai nudo: Armstrong non fà più paura a nessuno, anzi mette tenerezza la sua voglia d’arrivare a Parigi nonostante tutto. E tutto è la sua colpa d’essersi sopravvalutato coi suoi 39 anni che gli presentano il conto. Lo screzio tra Vinokourov e Contador a Mende è dimenticato tra gli applausi della sala stampa di Revel: Vino si riprende ciò che per miseri dieci secondi il suo compagno di squadra gli aveva tolto il giorno prima, cancella la sua immagine di "scacciato" dal Tour per doping vincendo e piangendo la tappa che precede le quattro frazioni pirenaiche.
Già, i Pirenei e il Tour. Peyresourde, Aspin, Tourmalet e Aubisque. Come nel 1910: "Assassini, criminali, questo è disumano" urlava cent’anni fa all’organizzazione Lapize scendendo dalla folle discesa del Tourmalet. Nel 50′ si sfiorò lo scandalo diplomatico: la corsa era organizzata per nazionali e l’Italia, addirittura con Magni in maglia gialla ritirò l’intera squadra accusando di sabotaggio i francesi per una due cavalli che cercò di buttare Bartali giù per un burrone. Quell’anno il Tour modificò il suo percorso evitando d’arrivare a Sanremo per paura della vendetta italiana.
La commovente vittoria di Anquetil sull’eterno secondo Poulidor nel 64′: ancora oggi Poulidor ricorda quand’andò a trovarlo sul letto di morte e congedandosi Anquetil gli disse che sarebbe arrivato secondo anche quella volta. "I Pirenei sono a larga maggioranza poveri e ci fà più caldo, naturalmente; solo le montagne ricche godono di ventilazione apprezzabile", così Gianni Mura riprendeva Ciotti. "Pantastique", urlava il 22 luglio 1998 all’inizio delle Alpi, "M’illumino di Pantani" dopo l’eroica scalata del Galibier. Tour e Giro nello stesso anno, come Coppi ma come nessun altro. Dalla sua morte, a San Valentino, il 14 febbraio 2004. Poi gli anni della seconda vita di Armstrong e l’arrivo di Contador. Il Tour o si odia o si ama per tante ragioni. I grandi inviati storici, Vasco Pratolini, Montanelli, Gianni Brera, Buzzati e Mura. Gian Paolo Ormezzano che diceva che alla fine dei pezzi bisognava pubblicare la sigla SAP (salvo antidoping positivo).
Le morti atroci, Simpson sul Ventoux nel 67′, stroncato da un cocktail di medicine dopanti, il rimpianto Casartelli sui Pirenei prima che il casco diventasse obbligatorio. Cuore matto Bitossi maglia verde nel 1968, la stessa di Petacchi mentre scrivo, unico altro italiano ad avvicinarsi a conquistare la più prestigiosa classifica per i francesi dopo quella generale. Poulidor e i suoi bagni in vasche d’acqua e aceto rosso, Coppi usava quello bianco, Bartali s’affidava alla Madonna. La sua vittoria durante i giorni dell’attentato a Togliatti distolse l’attenzione da una probabile rivoluzione comunista. La prima edizione epica vinta da Garin, spazzacamino valdostano in tappe che arrivavano a 52 ore di corsa. La storia, la fatica e il sudore fin da bambini, una vita per uno sport che ti passa sotto casa ed in cambio non chiede neppure un centesimo. Le carriere da gregari di tanti ragazzi che hanno sacrificato la loro gioventù alle corse per pochi soldi. L’etica, la storia e l’epica di uno sport del popolo e praticato dal popolo.
Per questo e non solo, il Tour non si odia, si ama.