C’è un solo rimedio al relativismo etico: l’obiezione di coscienza
01 Agosto 2010
Essere uomo – nel senso di vivere umanamente – significa avventurarsi nella ricerca del senso dell’esistenza. Si tratta però di un’avventura che non è esenta dai rischi: se è pur vero che tale chiamata si sperimenta nel proprio intimo, è questa stessa intimità che rende possibile l’insuccesso della nostra ricerca. Questa esperienza tragica di fallimento si chiama disperazione ed è una possibilità sempre presente perché è il prezzo stesso della libertà: il senso dipende sia dalle condizioni della realtà che dal nostro atteggiamento nei suoi confronti.
Ma il fallimento esistenziale di una persona è una cosa molto diversa dalla pretesa di legittimare giuridicamente questo insuccesso. E’ quanto accade quando il legislatore si appropria della potestà di legalizzare l’eutanasia, l’aborto o la formazione della coscienza morale dei minori inculcando “Educación a la ciudadanía” (“Educazione per la cittadinanza”, la materia imposta nelle scuole dal governo Zapatero. Di impronta laicista, ha sostituito l’insegnamento delle religioni nelle scuole, ndt). Il fatto che alcuni politici siano convinti che la vita non ha alcun senso trascendentale – proprio coloro che hanno fallito nella ricerca di una risposta coerente dopo la caduta del marxismo – non li legittima ne moralmente né giuridicamente a imporre agli altri tale “convinzione”.
La società plurale che propone la nostra Costituzione riconosce il diritto a che ciascuno di noi possa avere le sue proprie convinzioni, anche quelle più scettiche, ma non autorizza a imporle agli altri. E quando si pretende di fondare i diritti nell’insuccesso esistenziale delle persone, la libertà di coscienza è messa in pericolo perché è il frutto di una proclamazione confessionale dell’assurdità della vita. Ma come ha affermato Vicktor Frankl (psichiatra viennese che sopravvisse a un campo di concentrazione), persino nelle peggiori circostanze l’uomo è capace di trovare una ragione per vivere e andare al di là di tale situazione, trasformandola.
Tale visione è proprio il contrario di ciò che predica la nostra cultura della morte quando si cerca di giustificare il suicidio assistito (mal denominato eutanasia) come forma legale e sociale d’imporre la convinzione secondo cui la vita non vale la pena essere vissuta: infatti, ci invitano a pensare che la vita si può anche sopportare, ma quando le cose si mettono male… perché continuare a vivere? E quindi ecco che si cercano “nuovi diritti” (e il solo fatto di dire che il suicidio è un “diritto” è un “delitto”). Su quest’onda viene permesso l’infanticidio o il feticidio assistito (mal denominato interruzione della gravidanza) schiacciando a colpo di legge uno degli impulsi più profondi della nostra natura: l’istinto materno. La disperazione di una donna con difficoltà viene ratificata legalmente uccidendo il figlio che porta in grembo, e non c’è maggiore mostruosità di una madre che non senta un figlio come proprio. Non a caso nelle cliniche abortive non viene mai permesso alle donne di vedere l’ecografia del feto.
Il cinismo del legislatore si gonfia di superbia quando afferma che “nessuna madre vuole abortire per capriccio, per questa ragione è necessario legalizzare una situazione così drammatica e non desiderata”. E tale cinismo diventa un’oscena presa in giro quando invoca la propria coscienza per votare a favore della legittimazione dell’infanticidio con la pretesa di rendere simultanei una così grande aberrazione e la presunta identità cristiana. Un tale matrimonio di convenienza lo può fare solo un re del machiavellismo.
Una cultura della disperazione come questa ha un giro di vite in più verso il nulla: l’intento è quello di legalizzare un sistema educativo che pretende sostituire tale vuoto etico che è conseguenza della disperazione morale, con un sistema di valori etici che devono essere decisi per consenso. Nell’etica questo atteggiamento viene chiamato relativismo morale e costituisce il fondamento essenziale del progetto ideologico del governo con l’imposizione nelle scuole dell’“Educazione per la Cittadinanza”. Si tratta, in poche parole, di demolire la possibilità dell’esistenza di un’etica naturale (che è quella che cerca di mettere in luce il bene nella natura delle cose).
La rabbia con cui si è cercato di imporre nel sistema educativo il relativismo come unica morale ammissibile è proporzionale alla legittimazione senza senso della morte del non nato invocando il diritto di una donna disperata, ed è altrettanto proporzionale al tentativo di giustificare un suicida depressivo. Rendere legge tali supposizioni è come convocare i medici affinché imparino l’“arte” dell’uccidere, agli psichiatri l’“arte” di non assistere i depressi e ai docenti l’“arte” di indottrinare ideologicamente. Tali aberrazioni sono possibili solo qualora la legislazione di un Paese è nelle mani di tutta una serie di falliti esistenziali. E l’unica alternativa non può che essere il coraggio coerente dei professionisti che si rifiutano in coscienza a collaborare con questi attentati alla dignità umana.
*Fernando López Luengos è Dottore in Filosofia e vicepresidente dell’Asociación de Profesores Educación y Persona.
Tratto da Libertad Digital©
Traduzione di Fabrizia B. Maggi