Non basta ridurre le vittime civili per vincere la guerra in Afghanistan
04 Agosto 2010
La scorsa estate, ben prima dello scandalo Rolling Stone, il Generale americano Stanley McChrystal aveva introdotto una serie di nuove regole d’ingaggio per le sue truppe impegnate in Afghanistan. Niente più grilletto facile e obbligo di ritirata qualora si presentasse la probabilità di mietere vittime civili durante uno scontro a fuoco. C’erano state ovviamente numerose lamentele, perché si credeva che le nuove regole potessero mettere a rischio la vita dei soldati.
Ora invece un nuovo studio del professor Jacob Shapiro della Princeton Universty, presentato dalla NFA a costruito per mezzo di complessi calcoli matematici sulla base dei dati forniti direttamente dall’ISAF, rivela esattamente il contrario: ridurre drasticamente le morti dei civili afghani causerebbe, secondo gli autori del paper, una riduzione altrettanto drastica degli attacchi ai militari americani da parte degli insorti. Meglio ancora, una strategia volta a causare il minor numero possibile d’incidenti provocherebbe un assottigliamento progressivo delle fila degli insorti. Sarebbe infatti proprio la perdita di amici e parenti a causa dei proiettili americani uno dei principali motivi dello stato d’insurrezione perpetua che caratterizza la popolazione afgana. In particolare, sarebbero gli orgogliosi afgani di origine pashtun a rappresentare il vero problema, visto che la loro tradizione gli impone di vendicare la perdita dei loro cari in battaglia.
“I dati confermano l’affermazione secondo cui le morti civili starebbero favorendo futuri episodi di violenza per via del più intenso reclutamento nei gruppi d’insorti a seguito di un incidente che abbia prodotto morti tra i civili”, recita lo studio presentato dalla NAF. Secondo Jacob Shapiro, questa scoperta demolirebbe la credenza comune secondo cui gli eserciti affronterebbero un gioco a somma zero quando si tratta di proteggere le truppe oppure i civili. Stando a questo approccio strategico, causare una morte civile (-1) equivarrebbe a salvarne una militare (+1) e il risultato sarebbe sempre zero (+1-1=0, ovviamente).
Ma Shapiro e suoi colleghi sono convinti che tale filosofia porterebbe necessariamente a un atteggiamento più aggressivo da parte delle truppe e, a lungo andare, anche a più incidenti tra le loro stesse fila: “sembra che fare un pochino di più per ridurre le morti tra i civili possa ridurre il rischio di attacchi [contro le nostre truppe]”, ha dichiarato il noto professore di Princeton. Lo studio della NAF è stato finanziato dalle Forze Aeree statunitensi (un gran numero di morti civili nel conflitto afghano è stato infatti causato dal supporto aereo per i soldati a terra) e dall’università di Stanford e ha analizzato 4.000 morti civili avvenute nel corso di ben 25.000 scontri tra gli insorti e le forze USA per un periodo di quindici mesi, terminato lo scorso primo aprile.
In realtà però, una certa consapevolezza del fatto che fosse necessario premere meno il grilletto e ragionare di più, esisteva già da un po’ di tempo ai piani alti dell’esercito americano. Tanto è vero che il vituperato McChrystal aveva già imposto ai suoi soldati estrema cautela e che poi lo stesso David Petraeus ha dovuto ribadire il concetto e appoggiare le nuove regole da "figli dei fiori", quando è stato chiamato in causa da Obama il 23 giugno scorso. E d’altronde era stato lo stesso Segretario di Stato Robert Gates a dire che le morti tra i civili stavano fomentando l’insurrezione afgana. Niente di nuovo sotto al sole, quindi? Il fatto è che le regole "pacifiste", almeno per ora, non hanno prodotto risultati così eclatanti, abbassando sì il numero delle vittime, ma non in maniera tale da causare un conseguente abbassamento del livello dei reclutamenti tra le fila degli insorti.
Comunque pare che lo studio di Shapiro & Co. sia stato preso in seria considerazione da parte dell’esercito Usa: lo scorso 27 luglio, infatti, erano state messe in circolazione le nuove linee guida anti-insurrezione per l’Afghanistan solo che poi tutto il materiale è stato ritirato e sottoposto a un aggiornamento dell’ultim’ora. In particolare, in tutti e due i documenti (quello pre e quello post modifica) si legge la frase “combattere duramente e con disciplina” ma soltanto nella versione riveduta c’è scritto “dobbiamo continuare a sforzarci di ridurre le morti civili al minimo possibile”.
E anche se lo stesso Petraeus non lo ammette (“Ho ricevuto utili consigli sulla bozza iniziale da alcuni partner afgani e ho anche ascoltato i suggerimenti degli anziani e dalle Forze Speciali della provincia di Herat”) è possibile che pure lo studio del NAF abbia avuto un ruolo nello spingere “King David” a rivedere le sue carte. Intanto, il presidente Pakistano Asif Ali Zardari, in procinto di visitare ufficialmente la Gran Bretagna, ha recentemente dichiarato a un giornale francese che gli americani stanno andando male in Afghanistan perché “hanno perso la battaglia dei cuori e delle menti”.
Sono in molti a far notare da tempo che la rappresaglia e la vendetta sono una delle principali cause delle esplosioni di violenza in aree geografiche instabili. La recentissima strage avvenuta nella capitale pakistana Karachi, in cui 54 persone hanno perso la vita, è soltanto la più recente prova di questo nesso di causazione. Infatti, la causa principale di questa carneficina è l’assassinio del parlamentare Reza Haider per mano (a quanto sembra) dell’Awami National Party, d’affiliazione islamista.
Ma i soldati e gli ufficiali statunitensi si trovano ora a dover combattere in situazioni sempre più proibitive una guerra che era già molto difficile di per sé. Una delle tattiche preferite dai gruppi d’insorti, che combattono in uno stato d’inferiorità tecnico/tattica e con il vantaggio territoriale, è proprio la dissimulazione, oltre che gli agguati nei centri abitati e le trappole. Andare avanti con le nuove regole sarà sempre più difficile e l’Afghanistan sarà un luogo sempre meno sicuro per le forze americane alle quali, in pratica, si richiede di far quadrare il classico cerchio. Molti analisti pensano che questo punto, se non non interverranno cambiamenti significativi soprattutto dal punto di vista politico locale (oltre che all’interno dello stesso esercito afgano), sarà difficile fare previsioni ottimistiche su questo conflitto.