Er Canaro, fece a pezzi il suo aguzzino facendogli ingoiare i propri testicoli

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Er Canaro, fece a pezzi il suo aguzzino facendogli ingoiare i propri testicoli

11 Maggio 2016

Er canaro. Una parola dietro la quale si dipana il più delirante omicidio riportato dalle cronache. Un termine entrato nel lessico comune che racchiude in sè la ferocia, l’appartenenza al “milieu” maledetto delle borgate romane, dove vale la legge del più forte, e soprattutto della vendetta.

Perché quella di Pietro De Negri, il canaro, è stata la più spietata lezione impartita a uno dei tanti Ras del quartiere, quel Giancarlo Ricci letteralmente smontato pezzo per pezzo in un salone da toeletta per cani in via della Magliana 253, il 18 febbraio 1988.

Nella letteratura criminale non esistono termini di paragone con cui confrontare questa discesa agli inferi. Nemmeno i sacrifici umani di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, possono stare al passo con ciò che è accaduto in quel salone per animali trasformato in mattatoio. Quella donna difatti fece scempio di tre corpi, ma prima di squartarli e farne saponette, tolse loro la vita con un colpo secco di scure.

De Negri ha torturato la sua vittima per sei, forse sette ore, tenendola in vita. Occorre fare alcuni passi indietro per comprendere il delirio di questa esecuzione, ripercorrere i rapporti tra vittima e carnefice, tentare di respirare il clima della Magliana di quegli anni, con le sue gerarchie e le sue regole non scritte.

 

L’assassino, Pietro De Negri, nasce a Calasetta (provincia di Cagliari) il 28 settembre 1956. Suo padre è un imprenditore edile, muore presto per un tumore e Pietro si trasferisce a Roma, allontanandosi dai cinque fratelli e dalla madre, che va a a vivere a Ferrara.

Nella capitale va a vivere alla Magliana, dove a 17 anni prende la licenza media alle scuole serali. Si arrangia con mille lavori: elettrauto, falegname, rappresentante di commercio. Dopo il militare conosce la sua futura moglie, Paolina, che sposerà alla fine degli anni Settanta e da cui avrà una figlia, Sara, oggi trentenne. Nel quartiere, sorto a una velocità impressionante tra gli anni ’60 e ’70 per mano di palazzinari e amministratori scriteriati, la vita non è facile.

Pietro commette piccoli reati, poi riesce ad aprire il suo salone per cani, ma resta legato alla criminalità del quartiere, più che altro per non soccombere alle prepotenze dei malavitosi locali. Alla sua attività di tosacani affianca quella di piccolo spacciatore. E’ in questo contesto che conosce Giancarlo Ricci, ex pugile, impiegato come netturbino, in realtà dedito a furti, scippi e rapine.

De Negri è minuto, remissivo, l’altro ha il fisico e l’indole del predatore. E tra i due nasce un’amicizia malata, un rapporto sadomasochistico, che dopo anni di vessazioni subite dal canaro, porterà quest’ultimo a ribaltare i ruoli con la sua assurda, plateale vendetta. Ricci usa bene i pugni, anche per convincere un qualsiasi sconosciuto a offrirgli la colazione al bar, racconta chi vive nel quartiere. Divide il microcosmo della Magliana in amici e nemici, con i primi si comporta come una sorta di Robin Hood, riparando torti e punendo chi ha osato toccarli. Ma con tutti gli altri dispensa cattiverie.

De Negri vorrebbe entrare nella cerchia del pugile, più che altro per non soccombere alla sua prepotenza, ma quello ne intuisce il carattere debole, lo disprezza. Sa che potrà fargliene di tutti i colori senza che il tosacani osi reagire. Così è, per anni.

Giancarlo, nonostante il fisico e il talento da boxeur, fa uso di coacina, e Pietro può procurargliene. Ma non sempre gliela paga, a volte si infila in tasca la bustina e lo ricambia con una risata in faccia, altre volte con un cazzotto ben assestato. Ma er canaro non taglia i ponti, sa che se lo facesse l’altro diventerebbe ancora più prepotente. Le cose vanno avanti così, fino al giorno in cui al Ricci viene in mente di svaligiare la boutique attigua al negozio di tosacani di De Negri. Il quale tenta di opporsi: ha piccoli precedenti penali, la polizia sospetterebbe subito di lui. Il pugile lo convince a forza di pugni.

Insieme elaborano un piano: il tosacani andrà fuori Roma con moglie e figli da alcuni parenti, Ricci invece entrerà nel suo negozio, con le chiavi, e da lì praticherà un foro nella parete che lo divide dalla boutique per razziarla. Il colpo va a segno, ma gli investigatori mettono alle strette De Negri, il quale cade in contraddizione ma non fa il nome del complice. Il tosacani resta in carcere dieci mesi, quando esce reclama la sua parte di bottino, ma “l’amico” lo picchia e se ne va.

Da quel momento il canaro cambia. Lascia moglie e figlia e va a vivere nel suo negozio, forse sta meditando il piano per liberarsi di chi da anni lo umilia. Ricci un giorno si presenta lì e gli ruba lo stereo per poi chiedergli un riscatto di duecentomila lire. Un’altra volta lo schiaffeggia davanti alla figlioletta.

E’ il 17 febbraio quando il pugile chiede a De Negri cinque grammi di cocaina. L’altro gli dice di tornare dopo, abbassa la saracinesca a metà e si mette alla ricerca della droga. Quando torna vede Giancarlo uscire da quella stessa serranda. Dentro è tutto sottosopra, il Ricci ha anche bastonato il cane di Pietro, una femmina che aveva da poco partorito nove cuccioli. Il giorno dopo si compie la vendetta del canaro.

Sono le 13. Il pugile parcheggia la sua Alfa a 50 metri da via della Magliana 253, nell’auto c’è anche un suo amico, che resta ad aspettarlo. Giancarlo raggiunge a piedi il negozio di De Negri, il quale è sovraeccitato. Gli spiega che sta per arrivare un siciliano con la droga e i soldi raggranellati nel suo giro di spacciatori. Propone a Ricci di nascondersi e di inscenare una rapina per ripulirlo di tutto. Apre la gabbia per i cani sotto al bancone di metallo e gli consiglia di nascondersi lì. E’ la trappola.

Il pugile ci si infila ma scattano le serrature. In un istante va su tutte le furie, ma le urla sono coperte dalla musica a tutto volume dal nuovo stereo comprato dal tosacani. Ricci allarga le sbarre a spallate mentre Pietro gli spruzza addosso della benzina con un nebulizzatore per stordirlo. Giancarlo riesce a tirare fuori la testa, il canaro gli assesta una bastonata che gli fa perdere i sensi. A quel punto lo tira fuori da quella prigione di fortuna e lo immobilizza con le catene e i ganci per tenere fermi i cani.

Per prima cosa, afferra una tronchesina e gli trancia le dita delle mani, poi cauterizza le ferite con benzina e fuoco. Il pugile si risveglia, fuori di sè per la rabbia. Insulta, minaccia, ma è impotente. De Negri lo sfida: “Chi è stato a ridurre così er puggile?” L’altro risponde: “Il canaro!”. Già, il mite tosacani. Che dopo aver nuovamente stordito la sua vittima, gli tira fuori la lingua e gliela taglia, posandola sul bancone assieme ai moncherini delle dita. Ricci si risveglia, capisce che non uscirà vivo da quel negozio.

De Negri incalza: “Ora non puoi nemmeno fare l’infame, comunque se non mi metti in mezzo ti potrei portare all’ospedale”. Il pugile, con gli occhi e a gesti, gli promette il silenzio, ma quella del canaro è solo una provocazione. Con un coltello prende a scontornargli dal volto le labbra, la punta del naso, le orecchie. Poi prende le chiavi dell’Alfa di Ricci, esce e raggiunge l’auto dove c’era ad aspettarlo l’amico, Fabio.

“Giancarlo è scappato dopo la rapina al siciliano, riportagli l’auto a casa sua” dice il canaro per poi tornare nella toeletta. Il pugile è svenuto. De Negri prende la moto e va a prendere la figlia a scuola, come se nulla fosse, per accompagnarla dalla madre. Poi riprende la sua tortura. Abbassa i calzoni di Ricci, con un taglio netto lo evira. Con un pappagallo da idraulico gli allarga la bocca per infilarci i genitali. Dal bancone prende due dita e gliele infila nelle orbite. Gli introduce il moncherino di un pollice nell’ano. Cauterizza la ferita al pube. Sono gli ultimi istanti di vita del pugile, morto soffocato, secondo l’autopsia. Aveva 27 anni.

Er canaro attende la notte. Avvolge il cadavere in una coperta, dopo averlo legato in posizione fetale, poi lo infila in una grande busta di plastica nera. Con una corda lo cala dalla finestra del retrobottega che da su un cortile. Lo carica nel portabagagli dell’auto e lo scarica su un prato spelacchiato in via Cruciani Alibrandi. E’ l’alba.

Il tosacani cosparge di benzina quei resti ma fa in modo che le fiamme non rendano impossibile il riconoscimento del pugile. Le dita le lascia vicino al corpo, risparmiate dalle fiamme. Vuole che tuttti sappiano che fine ha fatto il prepotente del quartiere. La mattina un pastore che porta le sue pecore in quel fazzoletto di terra vede un corpo fumante. Chiama la polzia, che in effetti identifica subito Giancarlo Ricci. Gli investigatori pensano a un barbaro regolamento di conti. Portano in questura 85 persone. Tra loro c’è Fabio, l’amico che ara nell’Alfa con Giancarlo prima che morisse. Racconta della presunta rapina al fantomatico siciliano e inevitabilmente fa il nome di Pietro De Negri.

Antonio Del Greco, all’epoca funzionario della sezione omicidi della squadra mobile, ricorda l’interrogatorio del canaro: “Piagnucolava, negava confusamente. Quando lo provocai e gli dissi che se era un uomo doveva dire quello che sapeva, si trasformò, cambio voce. Toccato nell’orgoglio raccontò per filo e per segno quello che fece”.

Torniamo al 1988. De Negri viene arrestato, ma al momento delle sevizie era sotto l’effetto della cocaina, quindi incapace di intendere e di volere. Dopo otto mesi, il 12 maggio, viene rilasciato. Torna alla Magliana, e c’è chi non nasconde anche una timida approvazione: forse il canaro è matto, ma con le “palle”. La notizia è clamorosa: come può un uomo che ha torturato così un altro essere umano rimanere a piede libero? Questa è la domanda che si fa tutta Roma.

Ma nel quartiere di De Negri la scarcerazione scatena ben altre reazioni, in primo luogo le possibili ritorsioni degli amici della vittima, che potrebbero vendicarsi sulla moglie e sulla figlia del canaro. E poi c’è Vincenzina, la mamma del pugile, che gira per le strade della Magliana come un fantasma, in cerca del tosacani per vomitargli addosso tutto il suo odio.

C’è anche chi non crede che De Negri, er canaro, abbia fatto tutto da solo, e questo per lui vorrebbe dire ergastolo e non una pena commisurata a una folle vendetta personale. Ma De Negri, non ci sta a dividere con altri il delitto, tanto meno vuole passare per pazzo. E’ questa la sua unica preoccupazione. Per la sua vittima non ha espresso una parola di rammarico, non si è detto pentito dopo essere stato rilasciato. Sembra voler riscattare un’intera esistenza da succube con quelle sette ore di tortura al “prepotente”.

Non un assassino quindi, ma un giustiziere. In realtà un uomo entrato in contatto con i suoi peggiori fantasmi, con quel germe di follia che alberga in ognuno di noi e che quel 18 febbraio del 1988 ha trasformato il mite Pietro De Negri nel canaro. Condannato a 24 anni, Pietro de Negri è tornato in liberta nell’ottobre del 2005. E’ tornato a vivere con la moglie e la figlia in un’altra periferia romana.

Lavora come fattorino in uno studio legale. Ai cronisti, che all’epoca raccontarono i suoi proclami da giustiziere, ha chiesto solo di essere lasciato in pace e di dimenticare.

[Pubblicato il 16 agosto 2010]