E intanto nel Darfur si continua a morire. Oltre 200 morti a giugno

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E intanto nel Darfur si continua a morire. Oltre 200 morti a giugno

16 Luglio 2010

Si fa incandescente la situazione in Sudan e diventa tesa su due fronti. Nel Sudan Nord-Occidentale, nel martoriato Darfur, è salito a 221 morti il bilancio di giugno delle violenze in seguito agli scontri tra tribù arabe rivali. Un bollettino che si fa sempre più pesante e che ha raggiunto quota 600 a maggio, la cifra più alta registrata dall’avvio della Missione di pace Unamid, partita nel 2006.

La missione Unamid (Onu-Unione Africana) è la più ampia forza di peacekeeping multilaterale mai dispiegata, col compito principale di monitorare l’andamento dell’accordo della tregua delle ostilità sottoscritto nel 2004. Una missione impossibile, soprattutto dal momento che il governo sudanese mostra apertamente di non gradirla.

Il conflitto in Darfur va avanti dal 2003 e ha già totalizzato circa 400 mila di morti tra i civili e oltre due milioni di sfollati. Un classico “conflitto dimenticato” in un continente martoriato da violenza, malattie e carestie. Il solito mix di corruzione, tensioni religiose e geopolitica territoriale che ci rende disincantati e quasi abituati al sentirne parlare, ma che in realtà dovrebbe stupire e scandalizzare.

Sull’altro fronte è fresca la notizia che il Presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir è stato incriminato per genocidio dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja. Bashir sosteneva non ci fossero prove contro di lui già quando nel 2009 fu colpito da un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Il genocidio in questione è uno dei più sanguinosi della storia dell’Africa Sub-Sahariana, avvenuto nei confronti della popolazione non afro-araba, in cui per cinque anni, a cavallo degli anni ’90, trecentomila donne, uomini e bambini vennero perseguitati, stuprati, uccisi e altri due e milioni e mezzo di individui furono costretti alla fuga e ammassati in campi di rifugiati.

Questo mandato d’arresto potrebbe in realtà acuire ancora di più la tensione interna ad un paese diviso in due, in cui da sempre va avanti la guerra civile tra Nord e Sud, soprattutto quando si sta per avvicinare la data del referendum per la secessione del Sud, previsto per gennaio prossimo. Ovviamente Khartoum non vede di buon occhio la secessione, che vorrebbe dire perdere il controllo di preziose riserve petrolifere nazionali, situate principalmente nel Meridione del paese.

Da questo punto di vista suona sinistra la dichiarazione del ministro Kamal Obei, portavoce del governo: «L’aggiunta dell’accusa di genocidio conferma che la Cpi è un tribunale politico perchè annuncia sempre le sue decisioni quando il Sudan è impegnato in sfide cruciali, come la pace nel Darfur o la messa in opera dell’Accordo di pace globale (che nel 2005 ha messo fine alla guerra civile, ndr).

La decisione del Cpi non ci riguarda. Noi ci preoccupiamo dello sviluppo.” D’altronde al-Bashir ha compiuto anche viaggi all’estero dal 2009 ma non è mai stato arrestato, nonostante il mandato di cattura pendente sulla sua testa.