Non basta leggere Rep. per ricostruire veramente la storia d’Italia
19 Settembre 2010
In questi anni sono state pubblicate molte ricostruzioni della crisi italiana che hanno una matrice comune ben percepibile: il viscerale antiberlusconismo. In altri termini, abbondano libri e pamphlet che riportano tutti i mali della vita pubblica italiana alle attività dell’imprenditore milanese. Diciamo subito che il volume di Guido Crainz che qui discutiamo (Autobiografia di una repubblica. Le crisi dell’Italia attuale, Roma, Donzelli, pp. 243, € 16,50) non appartiene a questo genere letterario. Intendiamoci, l’autore è convinto che la "discesa in campo" di Berlusconi sia stata una iattura, però Crainz non si limita a travestire da analisi lucide le proprie simpatie umorali, ma si sforza di offrire una ricostruzione equilibrata degli ultimi decenni della storia italiana. Di questa intenzione euristica occorre dargli atto. Al tempo stesso, però, bisogna chiedersi se il tentativo può considerarsi riuscito. A nostro avviso la risposta dev’essere negativa, per due difetti di fondo che caratterizzano la ricostruzione.
In primo luogo abbiamo un pregiudizio moralista che condiziona l’analisi. Così avvenimenti come la Resistenza o il dopoguerra sono ricostruiti non come accadimenti di drammatica intensità, nei quali si manifestano spinte contraddittorie da interpretare e da capire nel loro determinarsi, ma vengono letti come delle occasioni perdute per un intrinseco difetto di tensione etica dei protagonisti e della società italiana. In sostanza, una recriminazione implicita su quello che avrebbe potuto essere e non è stato percorre l’esposizione, accompagnando la lettura come una sorta di basso continuo.
In secondo luogo troviamo quello che si può definire un pregiudizio sociologico. L’idea, cioè, che per spiegare le vicende politiche sia sufficiente riportarsi alle evoluzioni e alle modificazioni della società, trascurando l’ambito relativo ai rapporti di potere. Soprattutto, ed è questa una dimenticanza gravida di conseguenze, non si fa quasi cenno alle vicende internazionali che tanto hanno contato nel condizionare la politica italiana.
Tali difetti si rispecchiano anche nell’apparato critico che sostiene l’esposizione. Per supportare il suo discorso Crainz allinea, infatti, un buon numero di dati statistici, ma fa ricorso a un ancora più nutrito gruppo di citazioni riprese da fonti giornalistiche. I dati numerici servono a illustrare particolari aspetti e risultano certo utili, ma non spiegano tutto. Le citazioni, però, non aiutano a colmare questo vuoto perché costituiscono una sorta di controcanto alla narrazione, che rafforza il pregiudizio moralistico. Non casualmente tra gli autori più citati troviamo Eugenio Scalfari, che sull’indignazione pelosa ha costruito le proprie fortune di commentatore politico.
Questi difetti di fondo si accentuano man mano che l’esposizione avanza cronologicamente. A parere di Crainz il punto di svolta della vita italiana si colloca negli anni ottanta del secolo scorso. A datare da questo momento la società italiana conoscerebbe una irredimibile crisi etica da cui non riesce più a risollevarsi. L’egoismo sociale trionfa e permea di sé anche l’universo politico, dove, in questo clima di incalzante regressione civile, emerge la figura di Bettino Craxi. In sostanza, Crainz, prendendo come traccia della sua ricostruzione storica la vulgata messa in circolazione dal fondatore di Repubblica, assegna al segretario socialista un ruolo del tutto sproporzionato rispetto alla sua effettiva incidenza. Correlativamente assai poca attenzione è rivolta alle vere ragioni delle difficoltà italiane: la crisi di rappresentatività dei due grandi partiti, la Dc e il Pci. In particolare, se al Pci sono dedicate alcune riflessioni un po’ generiche, della Dc non si dice quasi nulla. Basti dire che un personaggio chiave come Ciriaco De Mita, che della Dc è stato segretario negli anni del degrado preagonico del sistema, viene citato di sfuggita una sola volta.
A sua volta, la crisi etica degli anni ottanta è presentata come il necessario prologo in cielo di tangentopoli. Una volta descritta la società italiana come una sorta di sodoma e gomorra dove le peggiori nefandezze vengono considerate normali, le campagne del pool di Milano diventano una giusta nemesi, che spazza via il marcio. In questa lettura etico-sociale, il vero fattore destabilizzante della vita politica italiana, cioè la fine della guerra fredda che mette in libertà gli elettori non più costretti a turarsi il naso, non viene neanche evocato. Data una simile impostazione è logico che gli sviluppi successivi (in sostanza il successo di Berlusconi) vengano letti come una conferma della irredimibile condizione dell’Italia.
In sostanza questo libro, proprio per la sincerità d’intenti che anima il suo autore, è un sintomo preoccupante della crisi intellettuale della sinistra italiana. È come se gli avvenimenti degli ultimi vent’anni avessero portato a una rottura d’intelligibilità. Per quanto ci si sforzi di capire quello che accade, le categorie analitiche tradizionali non offrono più una bussola attendibile. Allora, per esorcizzare il negativo si cerca rifugio in una deriva moralistica, ma in questo modo si proietta sulla realtà una ulteriore cortina di nebbia.