L’Onu pensi a Sakineh prima di mettere l’Iran nella “UN Women”
04 Novembre 2010
di Anna Bono
Il 2 luglio scorso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità la costituzione di una nuova agenzia, la UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women), dedicata alla lotta contro le discriminazioni di genere e alla promozione della condizione femminile nel mondo.
In essa si fondono quattro organismi istituiti nel corso del tempo dalle Nazioni Unite a tutela delle donne: lo UN Development Fund for Women, la Division for the Advancement of Women, l’International Research and Training Institute for the Advancement of Women e l’Office of the Special Adviser to UN Secretary-General on Gender Issues and Advancement of Women. Come sembra essere ormai consuetudine, quando si tratta di risoluzioni dell’Assemblea Generale, si è parlato di “momento storico” per l’umanità: il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha celebrato l’evento come l’alba di “una nuova era nel lavoro delle Nazioni Unite per le donne”. Ma ora che, per rendere operativa UN Women, occorre nominarne i componenti, sorgono i primi, prevedibilissimi problemi a smorzare l’entusiasmo di chi nell’istituzione della nuova agenzia aveva salutato una vittoria e un traguardo di indiscutibile valore.
La decisione di porre alla guida di UN Women l’ex presidente del Cile, Michelle Bachelet, è stata accolta con generale soddisfazione. Restano da scegliere, il prossimo 10 novembre, i 41 stati che costituiranno l’Executive Board. Oltre a sei cariche affidate ai quattro maggiori finanziatori dell’agenzia e a due stati contribuenti in via di sviluppo, 10 cariche vanno all’Asia, 10 all’Africa, 6 ad America Latina e Caraibi, 4 all’Europa dell’Est e 5 a Europa Occidentale e altri stati. Così stando le cose, è del tutto probabile che buona parte, se non la maggioranza dei componenti dell’Executive Board siano paesi in cui governi e abitanti violano sistematicamente i diritti e le libertà fondamentali delle donne, forti di istituzioni e tradizioni radicate: in altre parole, il rischio è di affidare al lupo la salvezza dell’agnello.
Per dare un’idea di quel che si prospetta, si pensi che l’Asia il 28 ottobre ha proposto tra gli altri niente meno che l’Iran, il paese dal quale da un momento all’altro potrebbe giungere la notizia dell’esecuzione capitale di Sakineh Mohammadi Ashtani, la donna condannata alla lapidazione per adulterio, pena che è stata poi “commutata” su pressione internazionale in condanna all’impiccagione per concorso nell’omicidio del marito. Gli Stati Uniti e diverse associazioni per la tutela dei diritti umani hanno già protestato energicamente e non soltanto in ragione del caso Sakineh.
A Teheran gli agenti della polizia religiosa e le milizie paramilitari ‘Bassij’ percorrono le vie alla ricerca di donne che mostrino ciocche di capelli, lacci di scarpe colorati, unghie laccate e altre offese alla morale musulmana. Da quando Ahmadinejad è al potere il suicidio, specie femminile, è diventato la seconda causa di morte violenta. L’Iran è inoltre il paese in cui è consentito il matrimonio temporaneo, che non può durare più di 99 anni e meno di 10 minuti (!), e in cui per le donne l’età minima per il matrimonio è di nove anni: così disposero due delle prime leggi varate dal regime degli ayatollah nel 1979, all’indomani della rivoluzione khomeinista. Questo incredibilmente non impedisce all’Iran di occupare una carica nell’excutive board dell’Unicef (il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia).
Un secondo stato proposto dall’Asia è l’Arabia Saudita: altre proteste e più che giustificati motivi di indignazione. D’altra parte, restando in Asia, quali sono le alternative? Si può seriamente pensare di affidare la promozione dei diritti delle donne (o di chiunque) all’Afghanistan, al Pakistan, al Bangladesh, alla Cina o a Myanmar?