I finiani sono rimasti gli unici a credere nel “postmoderno”
26 Agosto 2010
di redazione
Il saggio di Jean Francois Lyotard su "La condizione postmoderna" risale ormai a trent’anni fa. La "postmodernità", ovvero la periodizzazione storica elaborata dal professor Fredric Jameson, è roba degli anni Ottanta, così come appaiono datati i vari "postmodernismi" che contrabbandavano, nell’ordine, la fine della Storia e delle ideologie, dei grandi monoteismi e del soggetto centrato, l’idea che l’identità fosse divenuta qualcosa di molteplice e sfuggente.
Attualmente queste idee continuano a circolare nelle enclave accademiche dove si ritiene affannosamente che le civiltà siano sparite insieme alle religioni, e che ci avviamo felici e incoscienti verso un nuovo credo ecologico e politeista in cui tutto si mescolerà dentro un grande spinoziano indifferenziato. Ma eventi come l’11 Settembre hanno mostrato esattamente il contrario, cioé il riemergere prepotente delle "grandi narrazioni" e che quelle del postmoderno erano illusioni, come recitava il titolo di vecchio saggio di Terry Eagleton.
In Italia però arriviamo sempre un po’ più tardi di altri alle rivoluzioni culturali e certe definizioni riempiono ancora molto la bocca di chi le pronuncia, come i finiani di FareFuturo che nei giorni scorsi hanno annunciato la nascita della "destra postmoderna" nel Belpaese. In realtà gli intellos finiani non si accorgono di andare al traino di schematismi concettuali di cui la sinistra stessa, a lungo vittima del complesso del "post", si sta faticosamente liberando, dopo aver compreso che con "l’osmosi" e la "mescolanza" non si va da nessuna parte.
Per cui abbiamo un suggerimento accorato da rivolgere ai teorici di "Futuro e Libertà": dimenticate Lyotard e tornate a confrontarvi con le grandi questioni, ancora aperte, della modernità. Magari capirete un po’ meglio chi siete, da dove venite e a quale cultura appartenete. E’ troppo facile nuotare innocenti nel gran mare dell’indefinitezza postmoderna, astorica quanto inattuale.