Su Pasolini ricordiamoci la lezione di Polanski
21 Giugno 2007
di Daniela Coli
Il sindaco di Roma Walter Veltroni intende riaprire le indagini per fare luce sull’uccisione di Pier Paolo Pasolini sul litorale di Ostia tra l’1 e il 2 novembre 1975 e, come scrive Carlo Panella, pur diffidando della tesi del “complotto” contro “il poeta”, come lo definì Moravia il giorno della morte, non ci si sarebbe neppure da stupirsi se il regista delle Mille e una notte fosse stato vittima di un omicidio di gruppo. Il problema è però, come sottolinea Panella, l’indifferenza di tanti amici del regista, come Laura Betti, alla sessualità di Pasolini, che si comprava i ragazzini delle borgate romane, adescandoli col miraggio di una comparsata in uno dei suoi film, oppure anche solo con l’illusione di entrare nel suo giro dorato.
Stupisce anche che un giurista socialmente impegnato come Stefano Rodotà in una trasmissione di Gianni Minoli nel novembre del 2005, nell’anniversario della morte del regista, denunciando l’incompletezza delle ricerche sulla sua uccisione, l’addebitasse a una società incivile per cui Pasolini era solo “un frocio”, senza minimamente preoccuparsi del problema dei ragazzini che si prostituivano col poeta.
Walter Veltroni ama gli Stati Uniti e certamente non ignora il caso di Roman Polanski, il grande regista di Rosemary’s Baby, con alle spalle la tragedia della moglie, la bella Sharon Tate, uccisa incinta dalla gang del maniaco Charles Manson. Polanski nel 1977 abusò di una ragazzina di tredici anni, nella casa di Jack Nicholson che era assente, cominciando a farla spogliare col pretesto di farle delle foto per Vogue. Nel 1977 Polanski fu portato in tribunale con l’accusa di pedofilia e confessò di avere abusato della ragazzina sotto l’effetto di droghe. Condannato dal tribunale americano, Polanski fuggì a Parigi per non affrontare la punizione e, nonostante le richieste di estradizione della giustizia americana, gli fu permesso di restare in Europa e per 25 anni non ha rimesso piede negli Stati Uniti. Soltanto l’Oscar alla regia nel 2003 per Il Pianista, lo struggente film sull’Olocausto raccontato attraverso la storia del pianista ebreo polacco Wladyslaw Szpilman, ha permesso a Polanski di rimettere piede negli Stati Uniti, non senza la protesta di numerose associazioni antipedofile americane e di prestigiose testate statunitensi.
Roman Polanski è indubbiamente un grande regista, gli americani lo sanno, ma questo non ha impedito alla giustizia americana di perseguirlo e a giornali autorevoli di condannarlo. Anche Pasolini era un grande artista e il problema non era, come credono Stefano Rodotà e Laura Betti, che tutti ce l’avevano con lui perché era un gay, ma, come dimostra il caso Polanski, che in una società civile ciò che non piace della sessualità di un uomo – etero o gay – è che approfitti del suo potere e della sua ricchezza per abusare di ragazzine o ragazzini allettati dal nome famoso, dai soldi, da una particina in un film. Il sindaco di Roma riapra pure l’indagine sulla morte di Pasolini, ma tenga conto, se ammira tanto gli Stati Uniti, della tredicenne americana violentata che gli americani non hanno mai perdonato al grande Polanski.