
Ha ragione Veronesi, bisogna puntare sul nucleare

23 Giugno 2007
Su ‘La Repubblica’ del 30
Maggio scorso è apparso un articolo con un dibattito tra i professori Umberto
Veronesi e Carlo Rubbia sull’urgenza di produrre energia pulita.
All’affermazione di Veronesi “Il governo italiano deve costruire dieci centrali
nei prossimi dieci anni” Rubbia fa presente che “Il nucleare classico, compreso
quello di quarta generazione, non può aspirare a una diffusione su larga scala
soprattutto per i problemi legati alle scorie radioattive di lunga vita”. Il
dibattito merita un approfondimento.
Il problema dei rifiuti ad
alta attività si pone per quantitativi molto limitati, inferiori di diversi
ordini di grandezza ai quantitativi di rifiuti tossico-nocivi prodotti nei
processi industriali. Rimanendo in campo energetico, risulta che una centrale a
combustibile fossile da 1.000 MW riduce in cenere ogni anno da 1 a 2 milioni di tonnellate di
combustibile, scaricando in atmosfera milioni di tonnellate di CO2,
oltre a quantità considerevoli di altre sostanze nocive (tra cui i particolati).
Una centrale nucleare della stessa potenza produce in un anno circa 2
tonnellate di materiali ad alta attività derivanti dal ritrattamento del
combustibile utilizzato. Questi materiali sono usualmente inglobati in matrici
stabili di vetro minerale, inseriti in contenitori di acciaio a tenuta, a loro
volta inseriti in altri contenitori in acciaio di forte spessore.
Oggi il problema
dell’isolamento definitivo dei materiali ad alta attività dalla biosfera è
tecnicamente risolto attraverso il loro inglobamento in formazioni geologiche
stabili (argilla, salgemma, granito). Il motivo per il quale nessun paese (a
parte gli USA per i rifiuti prodotti nell’ambito dei programmi militari) ha
finora realizzato depositi del genere è che al momento non servono, dato che i
materiali prodotti negli impianti nucleari continuano ad essere stoccati presso
gli stessi impianti, occupando spazi minimi. I paesi che prevedono di avere
bisogno in futuro di depositi definitivi hanno in corso procedure di
qualificazione delle matrici geologiche. Questi studi torneranno utili quando
sarà necessario realizzare depositi definitivi, che secondo le indicazioni
della Commissione Europea dovranno essere depositi internazionali utilizzabili
da più paesi.
Un discorso a parte meritano
i reattori cosiddetti della quarta generazione, oggetto di vari programmi di
ricerca in vari laboratori internazionali e promossi nell’ambito dei piani di
sviluppo della Comunità Europea. Oltre a reattori avanzati ad alta temperatura
per la produzione di idrogeno, in questi programmi vengono studiati reattori che
negli scenari previsti sarebbero associati a quelli della generazione
precedente al fine di ‘bruciare’ (attraverso la reazione di fissione) gli
isotopi pesanti, che costituiscono le cosiddette scorie a lunghissima vita. Resterebbero
da smaltire alla fine solo gli isotopi, cosiddetti “leggeri”, prodotti dalla
fissione, in maggior parte dalla vita media che non va oltre qualche centinaio
di anni, quindi confinabili per periodi storicamente controllabili in siti
remoti, assieme ad altri rifiuti radioattivi a loro assimilabili provenienti
dalle applicazioni radiologiche nelle strutture ospedaliere o da processi
industriali. Per alcuni prodotti di fissione a lunga vita, tra cui il tecnezio-99,
si prevede di provocarne la trasmutazione in isotopi a vita media più breve
irraggiandoli in zone periferiche dei reattori di potenza.
Questi nuovi concetti di
reattore non sono una chimera. Si può affermare che sono in gran parte figli
del prototipo costruito all’inizio degli anni sessanta nel Laboratorio
Nazionale di Argonne, vicino a Chicago (il laboratorio in cui Fermi aveva fatto
i primi esperimenti sulle pile atomiche). Io stesso sono stato testimone, in
quanto allora ricercatore associato, del fermento di idee e ricerche che vi si
svolgevano. Si tratta del reattore
veloce EBR II (Experimental Breeder Reactor II), che ha funzionato trent’anni,
a partire dall’inizio degli anni Sessanta, senza problemi fino al suo
smantellamento. Quel reattore doveva dimostrare (e l’ha dimostrato) la
fattibilità del concetto IFR (Integrated Fast Reactor), cioè la possibilità di
costruire un reattore che prevedesse un sistema chiuso di riprocessamento del
combustibile con separazione dei prodotti di fissione e rifabbricazione nello
stesso sito (con minimo rischio di diversione e proliferazione). Vennero anche
avviati studi ed esperienze per dimostrare la possibilità del bruciamento per
fissione (direttamente o attraverso i prodotti delle successive trasmutazioni)
di tutti i nuclidi pesanti di cui un reattore veloce poteva essere alimentato,
cioè: i transuranici (tra cui i plutonio) provenienti dalle centrali termiche tradizionali
(per di più refrigerate ad acqua) e l’uranio impoverito proveniente dagli
impianti di arricchimento (con ciò venendo assicurata la disponibilità di
materiale combustibile per i prossimi millenni). L’incidente di Chernobil,
risultato infausto di un concetto di reattore intrinsecamente instabile, oggi
improponibile, e di una gestione di operatori a dir poco dissennati, ha
bloccato questo processo. Il reattore EBR II è stato chiuso anticipatamente, proprio
nel periodo in cui erano stati fatti degli esperimenti che dimostravano le sue
caratteristiche di sicurezza intrinseca (dopo l’arresto programmato delle pompe
primarie e secondarie, il reattore si spegneva da solo, in sicurezza!). Ora si
parla di reattori della IV generazione, ma forse sarebbe più giusto parlare di
“rinascimento nucleare”, come si sente dire ultimamente da più parti.
Per quanto riguarda i tempi,
occorre dire che la costruzione dei reattori della quarta generazione non è
prevista prima di 20-30 anni. Nel frattempo si ritiene adeguato il confinamento
dei materiali ad alta attività prodotti negli attuali reattori in siti adatti (eventualmente
negli stessi impianti, come si è detto sopra) per un loro futuro recupero. Rimane quindi tutto il tempo per affinare, e
rendere più economiche, le tecnologie di riprocessamento e separazione del
combustibile necessarie.
Augusto Gandini è Docente presso la Facoltà di
Ingegneria Energetica dell’Università di Roma “La Sapienza”.