Il Pd cerca di accendere la piazza ma ormai non scalda neanche più i cuori

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Il Pd cerca di accendere la piazza ma ormai non scalda neanche più i cuori

10 Dicembre 2010

Confinato da mesi nella periferia politica, il Partito Democratico cerca di prendersi un po’ di visibilità ricorrendo alla solita manifestazione in Piazza San Giovanni. Un’adunata con l’obiettivo più o meno dichiarato della “spallata”. Una “festa di liberazione” per dirla con le parole degli organizzatori, prevista per domani, a tre giorni dalla mozione di sfiducia per il governo Berlusconi. Un rendez-vous al quale il partito di Via del Nazareno non si avvicina certo con le stimmate del protagonista ma del comprimario costretto a rincorrere. 
L’ultimo colpo incassato nelle ultime ore è il no di Gianfranco Fini a un possibile governo di unità nazionale, un esecutivo “di emergenza” capace di riunire tutte le forze non berlusconiane. Un “niet”, quello del presidente della Camera, che mette sempre più in imbarazzo gli ex popolari timorosi di una deriva “vendoliana” e di nuova tappa nel cammino di trasformazione del Pd in un partito socialdemocratico. Se davvero il partito erede dei Ds si trovasse privo di sponde politiche, allora c’è chi ipotizza uno sparigliamento da parte di Bersani, con una sorta di nuova discesa in campo e la presentazione della sua candidatura in una tornata di primarie “anomala”, allargate anche ad Antonio Di Pietro e a Nichi Vendola. 
Una sorta di scontro finale in cui misurare l’unità del Partito democratico rispetto a una guida proveniente dall’esterno, un Papa straniero. Una roulette russa in cui dimostrare leadership e coraggio e giocare davvero le proprie carte, uscendo dal cono d’ombra in cui è attualmente costretto e dallo scomodo personaggio di grigio gestore degli sbalzi d’umore dei tanti colonnelli del partito. 
In attesa del futuro, c’è il presente. E la quotidiana navigazione è costellato da grane e problemi. L’ultima è l’invito a sciogliersi lanciato al Pd da Nichi Vendola, il quale ha proposto ai Democratici di dare vita, insieme, a un nuovo partito della sinistra. Una proposta che ha suscitato l’irritazione di Bersani, e di tutte le anime del partito. 
Per il governatore della Puglia è “ora di costruire un più vasto albero” e cioè un grande partito della sinistra. “Abbiamo fatto nascere un partito – spiega il leader di Sel – che si augura di restare in vita solo per il tempo necessario e che nel proprio Dna ha inscritto non l’istinto di sopravvivenza ma la tensione verso la nascita di qualcosa di più grande, che lo contenga e lo superi». Lo strumento per costruire il nuovo partito sarebbero, manco a dirlo, le primarie, nelle quali Vendola potrebbe contendere a Bersani la leadership del nuovo soggetto della sinistra. Il tutto corredato da un monito e dall’invito indirizzato al Pd, di mettere da parte abboccamenti e profferte verso i centristi.    
I malumori rispetto all’ “offerta” del governatore pugliese scattano immediati in tutte le anime del partito. Beppe Fioroni parla di ipotesi irrealizzabile, Giorgio Merlo di provocazione. E Bersani ricorda che “noi il partito lo abbiamo fatto e ci siamo presi anche una certa pena. Noi siamo interessati a un progetto di riorganizzazione del centrosinistra, che dica chiaramente agli italiani che non rifacciamo l’Unione e che sia esigibile in termini di compattezza”. In ogni caso la tregua di ottobre con Vendola sembra ormai essere svanita, così come la possibilità di avere un pieno sostegno qualora si creino le condizioni della grande alleanza con Fini, Casini e Rutelli. Una ammucchiata contra-personam che Vendola non sembra affatto disposto ad accettare, liquindandola come “una suggestione che piace soltanto a chi sta chiuso nelle stanze del potere”. 
In ogni caso la sensazione di ingovernabilità interna, dentro il Pd risulta sempre più evidente. L’esempio più sintomatico è quello di Torino, città per cui è stata messa in campo la candidatura di Piero Fassino, ovvero di un pezzo grosso della nomenklatura, un ex segretario del partito. Eppure, nonostante l’indicazione forte proveniente da Roma, gli altri possibili candidati non arretrano di un millimetro e inducono lo stesso Fassino a una riflessione. “La mia candidatura ha senso se il partito vi si riconosce, altrimenti mi faccio da parte senza drammi: se ci sono cinque, sei candidati non c’è bisogno di me”. L’ex numero uno dei Ds, a questo punto, ha spinto il pulsante “pausa” e sta riflettendo sul da farsi. Una situazione ugualmente complessa esiste a Bologna con la candidatura di Virginio Merola che cerca di smarcarsi dall’abbraccio mortale e dal ruolo di candidato ufficiale del Pd. Non va meglio a Napoli dove la scelta caduta su Umberto Ranieri sta accendendo una forte conflittualità locale. 
Così, mentre il Pd continua a discutere quasi esclusivamente di se stesso piuttosto che delle ricette da proporre per il Paese e mentre il redde rationem della mozione di sfiducia si avvicina, le proposte politiche diventano sempre più confuse. L’ultima è quella sfornata in mattinata quando Bersani si dice pronto a mettere il federalismo all’interno del programma di un eventuale governo di transizione. Un amo gettato nello stagno leghista che testimonia come il timore di elezioni induca a tentare soluzioni o acrobazie al limite della spregiudicatezza.