Unicredit, non c’è solo la questione libica dietro la resa di Profumo
22 Settembre 2010
Ieri si è conclusa una lunga stagione, iniziata nel 1997 con l’ascesa di Profumo al vertice del Credito Italiano, da cui il talentuoso banchiere nato 53 anni fa a Genova, ha preso le mosse per costruire una banca presente in 22 paesi e con circa 30 milioni di clienti.
La storia di Unicredit inizia nel 1998 con la fusione tra Credito Italiano, Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona (Cariverona), Cassa di Risparmio di Torino, Cassa di Risparmio di Trieste e Cassamarca.
Nel 1999 ai aggiungono Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto (Caritro) e Cassa di Risparmio di Trieste. Inevitabilmente queste operazioni hanno attribuito grande peso alle fondazioni bancarie azioniste.
Profumo quindi deciso a fare della sua banca una pubblic company e ad affrancarsi dalla tutela delle fondazionii, nel 2005 UniCredit annuncia l’opa sulla banca tedesca HypoVereinsbank AG che determinò l’ OPA a cascata su Bank Austria Creditanstalt e BPH (controllate da HVB) a cui seguì la scalata a Bank Polska Kasa Opieki Spólka Akcyjna (Bank Pekao S.A.).
Profumo, raggiunto il suo scopo, ha posto forti limiti all’autonomia dell’istituto sul territorio e ne ha centralizzato la gestione. In particolare ha impresso un notevole controllo sui comitati crediti – gli organi che deliberano in merito alle erogazioni – di tutte le banche acquisite.
I grandi soci istituzionali che hanno perso peso nella gestione dell’istituto, si consolano con gli utili da capogiro che provengono dalle cedole di dividendi distribuite da Piazza Cordusio.
Quindi tutto bene fino al 2008. Poi la grande crisi dei mercati e il collasso di tutte le piazza finanziarie del mondo. Il titolo di piazza Cordusio affonda. Unicredit soffre molto di più degli altri istituti italiani, subisce un tracollo clamoroso della sua patrimonializzazione ai limiti della normativa prudenziale. Sui conti della banca pesano come un macinio gli assets tossici in portafoglio di HVB e le allegre erogazioni di credito al consumo delle controllate dell’est.
Profumo, nonostante smentisca più volte, è costretto a ricapitalizzare la sua banca. Deve prima di tutto rassicurare i mercati e soprattutto i clienti. Milioni di correntisti timorosi di un crack, avrebbero affossato l’istituto con prelievi di massa.
Pertanto Profumo per reperire liquidità è costretto a richiedere l’intervento delle fondazioni. La Mediobanca di Geronzi, garantendo l’inoptato, organizza la pattuglia di fondazioni che si devono fare carico di un vero e proprio salvataggio. Nel 2008 queste istituzioni locali hanno versato nelle casse di Unicredit quasi 4 miliardi di euro mediante la sottoscrizione di uno strumento ibrido, i cashes, introdotti sul mercato per l’occasione. L’intervento però non è stato sufficiente, Unicredit deve ricorrere ad un altro aumento di capitale e all’emissione di bond.
Profumo che per quindici anni ha perseguito una rapida crescita dell’istituto a scapito della qualità delle operazioni per smarcarsi dalla fondazioni, ha dovuto bussare al loro porta con il cappello in mano, accettando la loro ingerenza nella gestione dell’istituto. Non a caso la scorsa primavera, con il rinnovo di tutto il Board, Profumo ha dovuto accettare come vice presidente Fabrizio Palenzona, espressione per antonomasia delle fondazioni.
Unicredit nelle varie ricapitalizzazioni operate negli scorsi due anni, ha beneficiato dei fondi provenienti dalla Libia di Gheddafi.
Al di là del paravento per cui formalmente gli investitori siano due, le autorità libiche sono salite fino oltre il 7% di Piazza Cordusio. Nonostante i proclami della Lega Nord, in particolare del Sindaco Tosi, tali investitori non costituiscono una minaccia per l’istituto. La Libia infatti tradizionalmente investe nei paesi occidentali con scopi meramente speculativi, senza fini strategici come avviene per i fondi sovrani di altri paesi come la Cina.
Di riflesso, lo scontro tra Profumo e i grandi azionisti non verte sul peso dei libici nell’istituto. L’attrito riguarda la vision della banca. Se negli anni le fondazioni hanno perso quote di potere ricevendo copiosi dividendi da distribuire a pioggia sui loro territori, a partire dal 2008 hanno patito una flessione dell’utile della banca che è passato da 6,5 mdl di euro nel 2007, a 4 mld nel 2008 per chiudere a 1,7 mld nel 2009. Nell’ultimo esercizio poi non hanno sostanzialmente ricevuto utili a fronte di ingenti investimenti per ricapitalizzare l’istituto di cui abbiamo detto.
Anche gli atri grandi soci sono molto preoccupati dal pessimo andamento dei conti. Per questa ragione Profumo, trovandosi in affanno, ha pensato di scaricare i costi delle sue scelte manageriali direttamente sui lavoratori della banca. Il piano “one 4C” volto a costituire il “bancone”, prevede l’incorporazione di tutte le attività retail italiane nella controllata Unicredit Banca e l’eliminazione di tutte le consociate presenti sul territorio, causando il taglio di circa 4500 posti di lavoro.
Ecco quindi che le fondazioni, portatrici degli interessi della politica locale non tollerano oltre un simile bagno di sangue tra i lavoratori. Non possono inoltre accettare una riorganizzazione che eliminando le subsidiaries del gruppo presenti sul territorio, centralizzi ancora di più l’erogazione del credito.
La poltrona di Profumo non è quindi stata minata dai libici ma dalla provincia italiana che rifiuta una banca troppo distante dalle istanze del territorio. Giuste o sbagliate che siano.
Del resto Profumo si è inebriato dei modelli anglosassoni fino a non parlare più di profitto ma la così detta “profittabilità”! E la ricerca esasperata dell’utile ha determinato gli eccessi della tecnofinanza e dell’indebitamento senza limiti. Un modello di banca che non considera la centralità degli istituti finanziari per lo sviluppo della comunità ma alla stregua di una qualsiasi impresa capitalistica.
Profumo ha tradito pertanto lo spirito delle casse di risparmio che hanno costituito proprio il nucleo forte di Unicredit. Questi istituti infatti, fino alla legge Amato del 1990, erano caratterizzati dalla finalità di raccogliere il piccolo risparmio a cui si associava l’erogazione di prestazioni di previdenza individuale e l’attività di beneficenza. Questi enti quindi rivestivano un ruolo importante nello sviluppo del tessuto economico-sociale.
Al contrario Unicredit negli ultimi anni non ha mai preso parte alle grandi operazioni di sistema come il salvataggio di Alitalia o di altre aziende colpite dalla congiuntura economica che hanno visto in prima linea altri istituti come Intesa o la stessa Mediobanca che ha gestito proprio la ricapitalizzazione di Unicredit!
Profumo chiamandosi fuori da queste operazioni a servizio della società italiana, ha trascurato gli obblighi morali connaturati con l’attività bancaria, e si è precluso senza dubbio una salda rete di relazioni che avrebbero deposto in suo favore in un CDA come quello che si è svolto ieri a Piazza Cordusio.