È ora di comprendere gli errori di una guerra giusta
24 Settembre 2010
Dopo l’annuncio delle settimane scorse del Presidente Obama, ora è l’uscita del libro di Tony Blair A Journey. My political life, nel quale quattro emozionanti capitoli sono dedicati proprio alle difficili scelte che riguardarono la guerra, a riportare l’Iraq al centro dell’attenzione. Non vi è dubbio, come ha scritto l’ex primo ministro britannico, che il mondo sia migliore senza il dittatore di Baghdad e che per la prima volta da quando Saddam salì al potere nel lontano 1979 il popolo iracheno sia oggi finalmente padrone del proprio destino. Ciò rappresenta il miglior risultato del conflitto iracheno. Un obiettivo che da solo rende la guerra meritevole di essere combattuta, anche se il percorso che ha consentito di raggiungerlo è indubbiamente in chiaroscuro.
Far luce sulla storia del conflitto è importante perché aiuta a capire gli errori, e riconoscere questi ultimi è l’unico modo per evitare di ripeterli in futuro. Se il surge è stato analizzato ed esaltato in moltissimi scritti, pubblicazioni e libri, perché ritenuto, a ragione, la premessa per la vittoria, c’è invece un periodo, quello dal 2003 al 2004, che viene indicato dagli analisti come il più nero della guerra in Iraq, a causa del quale il fallimento sembrava ad un passo. A quel periodo Bing West ha dedicato i primi capitoli del suo bestseller, The Strongest Tribe, uno dei più importanti libri di testimonianza sulla guerra irachena, ed i titoli sono emblematici: “Descent into Chaos” e “A near collapse”.
Ma a quel periodo è dedicato anche un interessante studio della RAND Corporation, che cerca di far luce su un periodo molto controverso. Ma davvero tutti i mali del conflitto sono dovuti all’operato della Coalition Provisional Authority (CPA) e del suo capo, Paul Bremer? Al di là degli errori, che indubbiamente ci sono stati, è davvero possibile dire con certezza che una decisione, per quanto importante, avrebbe potuto stravolgere il corso degli eventi? Davvero se nel 2003 i generali avessero avuto a disposizione lo stesso livello di truppe di 3 anni dopo, avrebbero potuto determinare un diverso esito? Che il periodo nel quale la CPA ha governato il paese sia stato il più difficile del conflitto non ci sono dubbi, specie nella fase iniziale dove sono stati commessi molti errori. Ma ciò che emerge dallo studio della RAND è che le ragioni di tale situazione sono molteplici, a cominciare dal fatto che una parte degli iracheni, di fronte alla possibilità di scegliere tra le urne ed il fucile, scelse, inizialmente, il secondo. E non fu solo un problema di mal governo o di impreparazione degli americani, ma una semplice reazione che in quel preciso periodo difficilmente avrebbe potuto essere evitata.
Gli iracheni, o almeno una parte di essi, soprattutto i sunniti, visse l’intervento anglo-americano come una atto ostile, un’invasione, ed aveva il timore che potesse essere l’inizio della loro emarginazione politica da parte degli sciiti e dei loro nuovi alleati. Nonostante le ampie rassicurazioni, ci volle molto tempo prima che i sunniti si rendessero conto che era nel loro stesso interesse riporre le armi e partecipare alla vita politica del paese. La convinzione si rafforzò pian piano, quando ci si accorse che stavolta, a differenza che nel 1991, gli anglo americani ed i loro alleati non avrebbero lasciato il paese finché la situazione non si fosse stabilizzata. Chi aveva scommesso sul caos, e sul fatto che esso avrebbe logorato le forze alleate costringendole ad un rapido ritiro, dovette ricredersi. Ma sembra davvero difficile pensare che i tempi di tale processo avrebbero potuto essere ridotti se non annullati agendo in modo diverso.
Un altro errore che spesso si fa è ritenere che il surge sia stato risolutivo semplicemente perché aumentava il livello delle truppe americane. In realtà, se esso ha funzionato è anche perché il numero delle truppe irachene, e la loro preparazione, erano arrivati al giusto livello quantitativo e qualitativo. Prima del 2006 i soldati iracheni erano probabilmente troppo pochi e sicuramente non adeguatamente addestrati ed equipaggiati per assumere la responsabilità della sicurezza del territorio. Si potrebbe pensare, come molti fanno, che la decisione di smantellare le forze armate sia stato il peggiore errore strategico della CPA, ma come sottolineato nello studio della RAND “tale decisione non è stata presa alla leggera. Walter Slocombe, che fu scelto come responsabile del CPA per le questioni legate alla sicurezza dopo essere stato a lungo sottosegretario alla difesa dell’amministrazione Clinton, si consultò con molti ufficiali del dipartimento alla difesa (DOD), e quando divenne chiaro che le forze armate irachene si stavano disgregando sotto la spinta dell’invasione americana, e che la maggior parte delle dotazioni erano andate perdute, distrutte o sottratte, decise che non c’era altro da fare che smantellare ciò che rimaneva dell’Iraqi Army per ricostruirlo da zero”.
Sostanzialmente Slocombe applicò una vecchia massima di Machiavelli che sosteneva che “è più facile trarre una buona statua da un marmo grezzo che da uno male abbozzato”. Da allora, passo dopo passo il livello delle forze armate è aumentato fino a raggiungere numericamente la “massa critica”, e le sue capacità sono migliorate al punto da consentirgli di partecipare attivamente alle operazioni militari alleate fino al prenderne il comando. La ricostruzione di forze militari e di polizia è uno di quei processi, estremamente complessi, che richiedono inevitabilmente tempo e per i quali è praticamente impossibile “bruciare le tappe”. Di esempi come questi ce ne sono molti altri e dimostrano che il “momento” e lo “scenario” sono due variabili fondamentali che orientano le scelte e sono da esse, a loro volta, influenzate.
Questo non vuol dire, naturalmente, che tutto è in funzione del tempo, perché ci sono decisioni che possono sicuramente aiutare a migliorare le condizioni sul campo, ma ci sono dei tempi “tecnici” che più di tanto non possono essere ridotti. Riuscire a gestire la transizione è la cosa più difficile, perché lo scenario è mutevole ed imprevedibile. Sono talmente tante le variabili in gioco che è praticamente impossibile stabilire con certezza a priori la cosa giusta da fare. Soprattutto all’inizio di una guerra, i piani si basano su previsioni che possono rivelarsi errate, in tutto o in parte, e la cosa davvero importante è essere capaci di reagire tempestivamente adattando la strategia alla realtà sul campo.
Della guerra si usa dire che si sa come inizia ma non si può sapere come finisce, per questo alcuni ritengono che sarebbe meglio non cominciarne mai una. Ma rinunciare all’affermazione dei propri ideali per paura non è saggezza è vigliaccheria, significa sostanzialmente rinunciare alla propria libertà. E come diceva Benjamin Franklin “chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.