Nella “Fortezza Europa” crescono le nuove destre. Ma non sono tutte uguali
27 Aprile 2011
Lo scorso 5 febbraio la stazione ferroviaria di Luton è in preda al caos. Circa 3.000 sostenitori della English Defense League (EDL) si sono dati appuntamento nella città del Berdfordshire inglese per una street parade anti-islamica. Si affrontano nelle strade con centinaia di manifestanti delle organizzazioni musulmane e del movimento Unite Against Fascism, antagonisti di sinistra e no-global. Luton, governata dai laburisti e fino al 2005 sede della Vauxall Motors (una controllata di GM), ha una popolazione di 185.000 abitanti, a fronte di una comunità islamica di 27.000 persone. E’ il posto perfetto per far capire agli inglesi che il modello multiculturale è franato, che le enclave musulmane rappresentano un pericolo crescente, perché sottraggono ai nativi lavoro, assistenza sanitaria, welfare. Su questi presupposti la EDL ha costruito la sua fortuna, crescendo in pochi anni da centinaia a migliaia di aderenti.
Due anni fa, alcuni gruppi islamici avevano contestato una parata militare del Royal Anglian Regiment di ritorno dall’Iraq al grido di “ecco i macellai di Bassora”. E’ stata la molla che ha fatto nascere il gruppo Unites Peoples of Luton, antesignano dell’EDL. Alla manifestazione del 5 in giro circolano molte croci di San Giorgio, si vede gente incappucciata che sventola cartelli dai toni violentemente anti-islamici, belle ragazze bionde e sorridenti, tanti disoccupati, insomma il “popolo” inglese, la working class o ciò che ne resta. Tutta gente convinta di essere stata abbandonata dalla politica, frustrata dai benpensanti della middle class che li considera dei razzisti, impaurita dalla predicazione degli imam che svuota i quartieri bianchi trasformandoli in ghetti separati dal resto della città.
I militanti dell’EDL non si sentono dei fascisti, come vengono dipinti dalla stampa. Uno dei leader ha partecipato al rogo del ritratto di Hitler, un altro spiega che l’organizzazione è aperta a gay ed ebrei, ai bianchi come agli afro, perché il problema non è la “razza” ma il fatto che la minoranza musulmana in Gran Bretagna si sente e si comporta già da maggioranza. Il nazionalismo dell’EDL ha dunque dei tratti originali che hanno permesso in poco tempo all’organizzazione di conquistarsi un certo consenso nell’opinione pubblica, a differenza dell’estrema destra e dei gruppi neonazisti, da sempre schiacciati ai margini della democrazia britannica.
Gli “intellettuali” dell’EDL si muovono e comunicano su Internet grazie a Facebook e ai social network, organizzano cortei e manifestazioni nelle principali città inglesi, si affidano ai “soldati” del movimento, gli hooligan, abituati allo scontro, anche quello fisico, con gli avversari e la polizia. L’EDL viene considerato un gruppo di proscrizione del più noto British National Party (BNP), il partito dell’ultradestra di Nick Griffin, che sembrava aver ripreso quota dopo anni di purgatorio politico, conquistando due seggi al parlamento europeo. Ma il BNP è stato velocemente ridimensionato dopo l’exploit alle europee, arretrando ulteriormente anche per colpa dei debiti e dei problemi finanziari. L’EDL invece è in netta crescita. In generale, si può dire che l’estrema destra britannica non ha né i numeri né la forza per rappresentare un’alternativa ai partiti tradizionali, eppure le questioni poste in campo dagli "arrabbiati" hanno smosso le acque e costretto i "grandi" a dare delle risposte.
Il primo ministro conservatore David Cameron ha posto nuovi vincoli alle politiche migratorie, dicendo chiaramente che il numero degli immigrati nel Regno Unito è diventato “troppo alto” e che i nuovi arrivati molto spesso “portano disagi”. Una retorica utile a sottrarre voti alla destra nazionalista, cercando il consenso delle classi popolari. Gli scontri di Luton sono quindi un campanello d’allarme per la stabilità della democrazia inglese ma non si può dire che in Gran Bretagna ci sia un revival neofascista. Se mai, il successo di gruppi come l’EDL dimostra che l’islamofobia è la vera questione dirimente nel Paese, come ha denunciato la baronessa Warsi, musulmana e ministro senza portafoglio del governo Cameron.
Nel maggio scorso, il centro islamico di Bury Park Road, la più importante istituzione musulmana di Luton, è stato dato alle fiamme. Nel corso dell’anno sono stati sventati altri piani per colpire le moschee arrestando bombaroli e “lupi solitari” pronti ad agire. Contemporaneamente, sotto la spinta della paura di nuovi attacchi terroristici e dell’estremismo islamico, la società inglese è diventata una delle più “controllate” al mondo, prefigurando scenari orwelliani in cui, in cambio di maggiore sicurezza, le autorità sacrificano il diritto inalienabile alla privacy della cittadinanza. La discussione sul "pericolo musulmano" infiamma gli animi e smuove le coscienze, ma la minaccia alle libertà personali e dell’individuo posta da uno stato spione non suscita lo stesso ardore polemico.
Dall’altra parte dell’Europa c’è l’Ungheria e qui la musica cambia. Nelle ultime settimane il parlamento, dominato dal partito di maggioranza Fidesz, ha modificato unilateralmente la Costituzione. Se pure indirettamente, si è deciso di vietare l’aborto. I matrimoni gay sono solo fantascienza. In compenso nella nuova carta costituzionale c’è un riferimento diretto alla “Santa Corona d’Ungheria”, il simbolo nazionale dello stato medievale magiaro, usato durante i regimi di Miklos Horthy e Ferenc Szalas alleati della Germania nazista. La carta fa appello al principio di autodeterminazione delle minoranze magiare che vivono nei Paesi confinanti, in Romania, Slovacchia, Croazia, nella Vojvodina serba e in Ucraina. Una forma di revancismo che il primo ministro ungherese, Victor Orban, sa coniugare abilmente con un europeismo spinto, quando accusa Bruxelles di aver rallentato il processo di allargamento della Ue.
Così, mentre si fa garante per l’ingresso di Romania e Bulgaria nell’area Schengen, Orban elegge il cristianesimo a religione di stato, l’unica, mentre la Ue va nella direzione opposta. Non è detto che in materia religiosa il relativismo di Bruxelles sia la strada giusta da seguire, ma Sarkozy e la Merkel hanno pesantemente criticato la nuova carta ungherese, accusando Orban di voler limitare la libertà di stampa, mentre i giornali conservatori tedeschi definivano il documento “un corpo alieno nella famiglia delle costituzioni europee”. In Ungheria la nostalgia post-imperiale per il vecchio e cattolicissimo impero asburgico si mescola a rigurgiti particolaristici e tensioni ideologiche che sembrano riprodurre pericolosamente i germi del passato nazista.
A fianco del conservatore Fidesz c’è il terzo partito ungherese, il Jobbik. Bollato come “fascista” dalla stampa occidentale, il Jobbik si difende proclamandosi conservatore, pro-cristiano e difensore dei valori e degli interessi della nazione ungherese. Quando il primo ministro Orban ha proposto un curioso disegno di legge per permettere alle madri di famiglia di votare al posto dei loro figli minorenni, i deputati del Jobbik si sono opposti spiegando che questo avrebbe favorito elettoralmente la minoranza Rom, che ha tassi di procreazione più alti.
Se la prima generazione di leader politici del Jobbik era fatta di “combattenti per la libertà” come Gergely Pongratz (i Corvin Koz di Pongratz distrussero una dozzina di carri armati sovietici nella rivolta del ’56 ), le nuove leve sembrano più inclini alle sirene dell’antisemitismo. L’avvocatessa Cristina Morvai, che è il sesto politico più popolare in Ungheria e candidata presidente del Jobbik, durante l’operazione “Piombo Fuso” condotta nel 2009 da Israele contro Gaza, ebbe a dire che “Il solo modo per parlare con gente come voi (gli israeliani, ndr) è comportarsi come fa Hamas. Io spero che riceviate ‘i baci’ di Hamas per ognuna delle vittime che avete provocato”. Gabor Vona, il leader trentenne del Jobbik, ha promesso di indossare l’uniforme della "Guardia Magiara", una milizia paramilitare di stampo neofascista creata nel 2007, se fosse stato eletto al parlamento ungherese. Gli è stato impedito e lui l’ha descritto come un atto di disobbedienza civile.
Le spinte reazionarie della nuova costituzione ungherese, il revancismo e l’idea di una “Grande Ungheria”, la nostalgia asburgica, divengono ancora più preoccupanti se pensiamo che nella vicina Austria i due partiti dell’estrema destra, il Partito della libertà (FPO) e l’Alleanza per il futuro dell’Austria (BZO), assieme, fanno il 30 per cento dell’elettorato. Jorg Haider, il controverso uomo politico morto in un incidente d’auto nel 2008, aveva rapidamente trasformato l’FPO nel secondo partito austriaco, ma poi, preoccupato di dover cedere la leadership al giovane Heinz Christian “HC” Strache, nel 2005 aveva fondato il BZO, dandogli un connotato più “liberale” e meno estremista.
Strache invece punta sul nazionalismo duro e puro, descrivendo le donne coperte dal velo come “femmine ninja”. Nel frattempo, i gruppetti neonazi dissacrano le tombe nei cimiteri musulmani. A Braunau, città che diede i natali ad Adolf Hitler, di recente è stata scoperta pubblicamente una svastica per festeggiare il compleanno del fuhrer. Strache, che in passato ha frequentato circoli estremisti, ha ricevuto anche la “benedizione” dal grande burattinaio del neonazismo europeo, quell’Herbert Schweiger, già guardia del corpo di Hitler nelle Waffen SS Panzer Division Leibstandarte, che oggi dalla sua casetta inerpicata sulle Alpi annuncia che è arrivato il momento per l’apparizione di un nuovo fuhrer in Europa. “I giudei di Wall Street sono i veri responsabili della crisi economica attuale – spiega – Oggi viviamo una situazione simile a quella del 1929 quando il 90% delle ricchezze era nelle mani degli ebrei. Hitler aveva la soluzione giusta”. Quando Strache ha vinto le elezioni, l’inglese Nick Griffin si è detto “impressionato” dal risultato, “avete mostrato di saper combinare i principi del nazionalismo con un grande successo elettorale”.
Bisogna dire però che il fascismo non è mai stato un fenomeno univoco ma, come ha scritto Roger Scruton, “un amalgama di concezioni disparate”. Per cui non è corretto affermare che in Europa assistiamo a un rigurgito monolitico dei vecchi totalitarismi. Oltre a dover ripensare parole come “xenofobia” e “razzismo” in uno scenario molto diverso da quello degli anni Trenta – legato alla realtà emersa dopo l’11 Settembre, agli enormi fenomeni di mobilità messi in moto dalla globalizzazione, alla delusione per il processo di integrazione europeo e all’insorgere di sentimenti anti-politici nei popoli del vecchio continente – bisogna ammettere che i moderni partiti populisti, anti-islamici e nazionalisti, non sono uguali fra loro.
Ciò che abbiamo detto per l’Austria e l’Ungheria non vale per il Freedom Party olandese di Geert Wilders, anti-islamico fino al midollo ma amico dello stato di Israele; il compianto politico conservatore Pym Fortuyn e la scrittrice di origine somala Ayaan Hirsi Ali hanno aspramente criticato l’irredentismo del Vlaams Belang belga; e così via (alle manifestazioni dell’EDL si sventolano le bandiere dello stato ebraico). Ad unire tutte queste forze, se mai, è l’abilità di pescare il consenso delle masse popolari impoverite dalla crisi economica e spaventate dalla immigrazione. Tra questi uomini circola un sentimento anti-egalitario, anti-illuministico, ostile alla democrazia, in cui il culto del leader si mescola all’amore per i simboli patriottici, all’appello verso l’azione ed una vita energica.
Ma proprio l’eccesso di leaderismo appare come uno degli elementi di maggiore debolezza di queste formazioni. E’ utile chiedersi se lo straordinario risultato elettorale ottenuto di recente dal partito dei “Veri Finnici” in Finlandia, una formazione di estrazione agraria e cristiana passato da 6 a 36 seggi in parlamento, sopravviverà alla verve del suo leader, Timo Soini. Una domanda che potrebbe valere anche per Geert Wilders o per altri leader europei su cui si sono accesi i riflettori e la curiosità di un elettorato stufo di subire ma impaurito dal cambiamento. (Fine della prima puntata. Continua…)