Il Pd non crede nell’alternanza ma nella legge del “chi urla più forte”

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Il Pd non crede nell’alternanza ma nella legge del “chi urla più forte”

29 Aprile 2011

Negli anni della prima repubblica andava di moda una battuta di Giulio Andreotti: "il potere logora chi non ce l’ha". Forse il senatore Andreotti, imbolsito dalla pluridecennale pratica delle stanze del potere, pensava di aver espresso un aforisma di profonda e universale saggezza politica, degno di stare alla pari con le massime del cardinal Mazarino o con i precetti di Machiavelli, senza percepire che l’apoftegma descriveva invece una situazione determinata e per nulla esemplare. La sua battuta riassumeva, infatti, l’arretratezza di una democrazia dimidiata e bloccata, in cui gli elettori, in mancanza di alternative credibili, erano costretti a turarsi il naso, continuando a votare la Democrazia cristiana per paura dei comunisti. In una simile situazione i pani e i pesci del sottogoverno costituivano, necessariamente, il canale principale per l’acquisizione del consenso. In una democrazia funzionante le cose stanno esattamente all’opposto: il potere logora sempre chi lo detiene. Né può essere diversamente. La presenza di una possibile alternativa mette un freno alla demagogia di chi governa, impedendo la pratica dello scaricabarile selvaggio. Inoltre, la responsabilità politica chiaramente individuata obbliga a scelte che non possono essere sempre popolari.

Dai tempi della prima repubblica, cioè del predominio del partito dello scudo crociato, molta acqua è passata sotto i ponti del potere. L’Italia si è avviata (pur tra tante resistenze) a diventare una democrazia dell’alternanza. Tuttavia, la frase andreottiana appare ancora in grado di ispirare la politica suicida del centro sinistra e, soprattutto, del suo principale partito. Dopo la fallimentare esperienza del Prodi due, il Partito democratico pareva aver tratto un qualche ammaestramento dagli eventi, e sembrava deciso a riorganizzare giudiziosamente la propria azione. Si dotava di un leader non estremista (Veltroni) acclamato a furor di primarie, e metteva in soffitta il fondamentalismo antiberlusconiano per far luogo a un’opposizione più empirica e ragionata. I buoni propositi del Pd, come quelli di Pinocchio, duravano il breve spazio di un mattino. Veltroni, osteggiato da una sorda opposizione interna, era ben presto costretto a dimettersi. La scelta del partito a vocazione maggioritaria veniva abbandonata. Si tornava a perseguire la strada della grande ammucchiata tenuta assieme solo dall’odio per il premier.

Da quel momento in poi è stata una accelerata discesa agli inferi. Torna a galla il più dissennato giustizialismo forcaiolo targato Italia dei valori. Si subisce il ricatto della sinistra massimalista che, per quanto esclusa dal parlamento grazie a una oculata scelta di Veltroni, possiede un leader abile e mediaticamente forte come Vendola. Si lanciano segnali di fumo a formazioni e partitelli centristi. Dulcis in fundo, si corteggia la Lega di Bossi auspicando una improbabile defezione dalla maggioranza.

Mentre ferve tutta questa attività, l’opinione pubblica va in tutt’altra direzione. Un recente sondaggio rivela che molti cittadini, il 48%, sono indecisi su chi votare. Insomma anche da noi si registra un fenomeno fisiologico nelle democrazie mature: gli elettori sono più voltatili e meno legati ad un’appartenenza identitaria. Peraltro dopo tre anni la maggioranza mostra qualche inevitabile segno di logoramento. La pugnalata dei finiani ha costretto a un’opera di ricucitura non indolore, che ha inciso sull’azione di governo. Non meno logorante è anche il braccio di ferro sotterraneo con la Lega. Il partito di Bossi, pur esprimendo un’azione di governo non irresponsabile, assume posizioni ultra demagogiche anche in materie assai delicate come la giustizia o la politica estera.

Venire incontro al moto di opinione rivelato dal sondaggio non era, in teoria, difficile. Bastava perseguire la logica del partito a vocazione maggioritaria senza rincorrere i più disparati rivoli della protesta. Però, per riuscire a farlo i dirigenti del Pd avrebbero dovuto avere fiducia nella democrazia competitiva. Il punto è proprio lì, non ci credono davvero. Sotto sotto continuano a viverla come un’imposizione. Perciò è facile prevedere che non solo resteranno minoranza ancora a lungo, ma saranno preda delle scorrerie demagogiche massimaliste e giustizialiste o dei ricatti centristi e partitocratici.