I paesi europei devono scegliere se salvare la Grecia o se stessi
13 Giugno 2011
Il futuro del debito greco sta sempre più assumendo i connotati di un intricato caso politico. Negli ultimi giorni, infatti, si è fatto sempre più acceso lo scontro tra Germania e BCE, con la prima che crede ad un inevitabile fallimento del debito ellenico e che tramite una mozione votata al Bundestag ha richiesto la partecipazione degli istituti di credito al salvataggio greco e la seconda che invece di fallimento e ristrutturazione proprio non ne vuol sentire parlare. Il conflitto istituzionale tra Berlino e Francoforte è probabilmente destinato ad acuirsi nelle prossime ore, poiché nella prossima riunione dell’Eurogruppo, prevista per il 14 Giugno, anche gli altri Stati membri dovranno esprimere la loro posizione e far capire se intendono sostenere o meno il nuovo piano di salvataggio.
La situazione economica greca è in netto peggioramento. Nel primo trimestre 2011 i dati di contabilità nazionale hanno registrato un crollo del PIL pari a -5,5%, contro il -4,8% previsto. Il tasso di disoccupazione è lievitato al 16,2% (nel marzo 2010 era pari a “solo” 11,6%). Il prestito di 120 miliardi di euro concesso l’anno scorso, che avrebbe dovuto contribuire a rimettere l’economia greca sui giusti binari, non ha sortito praticamente nessun effetto benefico.
I detrattori della ristrutturazione soft del debito sono gli stessi che propugnano un nuovo piano di aiuti, inizialmente quantificato attorno ai 60 miliardi di euro, ma che in realtà ammonterà a molti miliardi in più. Secondo quanto dichiarato dal ministro delle finanze belga, Didier Reynders, il nuovo piano ammonterebbe a 80 miliardi, dei quali 25 totalmente a carico degli istituti di credito privati.
La verità è che nessuno riesce a quantificare con certezza di quanti soldi la Grecia ha bisogno per uscire dalla crisi. L’altra verità è che ormai gli Stati si stanno accorgendo che l’economia ellenica non ha i fondamentali per uscire in tempi brevi dalla crisi e stanno pensando seriamente di accodarsi a Berlino nello scaricare in parte l’onere dell’aiuto sugli settore privato. Nessun ministro dell’Economia vuole infatti presentarsi nuovamente davanti al proprio parlamento per chiedere altri soldi da prestare alla Grecia, sapendo che quel denaro serve per sistemare lo stato della finanza pubblica domestica. Nella peggior crisi economica del secondo dopoguerra, in una situazione di crisi di liquidità senza precedenti dalla quale nessuna nazione ne è uscita indenne non c’è spazio per pensare a chi sta peggio. Una situazione nota in economica con la cruda espressione beggar-thy-neighbour, letteralmente “appendi il tuo vicino”.
Il dilemma che i governi devono affrontare in queste ore è drammatico: sostenere la Grecia e sottrarre risorse pubbliche utili per ripianare il proprio deficit e debito, come imposto dal Patto di Stabilità e crescita, oppure pensare alle proprie finanze e condannare l’economia europea ad una crisi bancaria dagli sviluppi imprevedibili? I segnali di una crisi bancaria sistemica sono già evidenti, se si pensa che l’ultima emissione di covered bond del Banco de Santander, uno dei giganti bancari europei, è stata disastrosa, poiché si è riusciti a collocare sul mercato solo la metà dei titoli offerti. Esito inaspettato, se si pensa che l’istituto gode di una tripla A. Ancora, il rendimento sui bond greci a 10 anni è aumentato al 15,98% (1292 punti base su Bund), quello portoghese al 10,52% (745 punti base su Bund) e quello irlandese al 10,63% (756 punti base su Bund).
In questo scenario allarmante presto anche l’Italia dovrà decidere quale posizione adottare. La scelta non è facile. Tremonti, infatti, è alle prese con la manovra correttiva da 45 miliardi di euro impostagli dall’Europa, per riportare il bilancio vicino al pareggio entro il 2014. Dover aggiungere altri miliardi per il salvataggio della Grecia potrebbe essere politicamente molto sconveniente, soprattutto in un clima dove l’elettorato del centrodestra ha fatto capire che sono le riforme economiche, in primis, ad interessare. L’alternativa è quella di accodarsi alla locomotiva di Berlino, alla quale presumibilmente si aggiungeranno presto altri Stati (l’Olanda l’ha fatto giusto nelle ultime ore) e sostenere l’ipotesi di ristrutturazione soft del debito ellenico. Se questa fosse la scelta, l’Italia avrebbe il vantaggio di non avere una esposizione molto elevata dei propri istituti di credito nei confronti dei sirtaki bonds e quindi la ristrutturazione potrebbe avere un impatto molto limitato sul sistema bancario nazionale.