Di Pietro, il moderato, perde il pelo. Ma avrà perso pure il vizio?

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Di Pietro, il moderato, perde il pelo. Ma avrà perso pure il vizio?

16 Giugno 2011

Il più classico adagio sul giornalismo recita che un cane che morde l’uomo non è una notizia mentre lo è un uomo che morde un cane. La stessa regola evidentemente vale per Antonio Di Pietro. E’ bastato che l’uomo che ha esplorato ogni iperbole dell’insulto nei confronti di Silvio Berlusconi, paragonandolo di volta in volta a Hitler, Nerone, Videla, Saddam, Mussolini e Dracula, indossasse per un giorno i panni del moderato per conquistare titoli, ritratti e analisi psicologiche. A dar retta ai quotidiani un nuovo personaggio si aggirerebbe sulla scena politica. Banditi i toni affilati, quelli finalizzati alla ricerca permanente di un accreditamento presso i ceti più radicali della sinistra, improvvisamente il leader dell’Italia dei Valori si sarebbe redento. Il motivo? Non aver chiesto all’indomani del risultato referendario le dimissioni del premier, non aver promosso mozioni di sfiducia perché “non ci sono i numeri” anche se c’è “una differenza abissale tra la maggioranza degli italiani e la maggioranza in Parlamento ricattata o scilipotata. Questo governo finirà per consunzione, allora dovremo essere pronti”.

E’ bastato, insomma, che per un giorno – anche se per un giorno solo – non chiedesse la testa della sua personale ossessione – Silvio Berlusconi – non lanciasse qualche strale verso il Colle e fornisse una sorta di lezione di stile ai vari Bersani e Vendola per accendere la ridda delle ipotesi. La più gettonata è quella secondo cui l’ex pm di Mani Pulite si sarebbe convinto della necessità di trasformare il suo partito in una forza di governo credibile. Non più un “intercettatore” di disordinati malumori, insomma, ma un vero partito capace di esprimere proposta e non protesta. Un rinnovamento forse dettato anche dalla necessità e dalla realtà dei numeri visto che i risultati delle ultime amministrative non sono stati certo una cavalcata sul sentiero dei successi elettorali visto che per l’Italia dei Valori sono andati perduti circa 60mila voti (al contrario dei grillini e di Sinistra e Libertà). A dire il vero, peraltro, la sua “conversione” è iniziata qualche giorno prima del referendum nella fase in cui era ancora necessario convincere più italiani possibile a recarsi alle urne. In quei giorni il leader Idv dettò la prima dichiarazione “anomala”: “Non è una battaglia contro il governo o a favore dell’opposizione, ma per il futuro del Paese” disse vestendo a fatica i panni per lui stretti della colomba. Poi, archiviato il voto referendario, altro morbido affondo: “Chiedere le dimissioni dell’esecutivo sulla base del risultato del referendum è una strumentalizzazione”. Un rilievo che alla fine ha conquistato anche il Partito Democratico, convintosi nel giro di poche ore dell’impraticabilità dell’ennesimo tentativo di spallata. Fino alla stoccata finale, una intervista a Repubblica in cui, rivolgendosi a Bersani, lo ha invitato a riflettere sul “dovere di ricostruire il Paese e questo si fa con un programma di governo e non con la politica urlata”. Una sorta di vero e proprio attacco frontale al suo vecchio io, al suo vecchio personaggio di urlatore, quello capace di esprimere in ogni dichiarazione dettata alle agenzie un talento simile a un Tony Dallara o un Joe Sentieri.

Quali prospettive si aprono a questo punto per Antonio Di Pietro o forse sarebbe il caso di dire per il suo avatar moderato?  Secondo molti l’ex pm sarebbe stato messo in crisi dalla strategia di Bersani e dalla fine della stagione della vocazione maggioritaria del Pd. Un ritorno alla stagione del “tutti dentro” che ha nuovamente regalato un ruolo ai vari Vendola, Verdi, grillini, insomma tutti coloro che naturalmente e da anni presidiano lo spazio a sinistra dei Democratici. Senza sottovalutare le pratiche per la successione che sono state avviate nel centrodestra e che potrebbero privarlo della ragione sociale di un partito tutto basato sul proprio essere “anti” qualcuno o qualcosa ma poco avvezzo a farsi riconoscere per altri meriti. Di Pietro sarebbe, insomma, alla ricerca di una nuova identità e di una nuova collocazione politica. Quindi meno appiattimento sulle posizioni radicali e un sostanziale spostamento a destra sempre però nell’arco dell’alleanza con Bersani.

A questo punto ci si chiede se questa strada sarà per lui praticabile. Se il suo partito, estremamente eterogeneo al suo interno, riuscirà a seguirlo nel nuovo dettato strategico. E soprattutto se il vecchio lupo di Montenero di Bisaccia riuscirà davvero a perdere davvero il vizio e quindi a resistere, a mordersi la lingua e a non ricadere nei fasti dialettici a cui ci ha abituato in questi lunghi anni. Lo vedremo. Tanto, per dirla con le sue stesse parole, “finché non c’è la bistecca, è inutile dire chi sarà l’invitato al pranzo”.