Provetta per tutti: un mondo di bebè selezionati
08 Luglio 2011
Violando platealmente la legge 40 sulla procreazione assistita, la recente sentenza del Tribunale di Salerno ha stabilito che – almeno limitatamente al caso in esame – le tecniche di fecondazione in vitro possono essere utilizzate per selezionare embrioni su base genetica, a prescindere dalla fertilità delle coppie. In altre parole, secondo il giudice che ha firmato la sentenza, le tecniche di fecondazione in laboratorio possono essere considerate un’alternativa al concepimento naturale per le coppie portatrici di malattie genetiche, per consentire loro di generare un gran numero di embrioni fra i quali scegliere quelli sani da trasferire in utero, e scartare quelli malati.
Se la diagnosi embrionale preimpianto fosse solamente una sofisticata tecnica biomedica di frontiera, una forma di tutela della salute della donna o addirittura – come detto da alcuni – il segno di un senso di responsabilità nell’evitare di mettere al mondo figli malati, allora dovrebbe essere una procedura liberamente accessibile a tutti, anzi: incoraggiata e sostenuta pure economicamente, così come lo sono, ad esempio, l’assunzione di acido folico per prevenire la spina bifida, o il corso di preparazione al parto naturale. Ma non è così: il fatto stesso che nella maggior parte dei Paesi la diagnosi preimpianto non sia di routine ma si possa eseguire solo per individuare certe patologie, e che si paragoni all’aborto eseguito per motivi eugenetici, e cioè quando il nascituro mostra gravi malformazioni, dimostra che si tratta di qualcosa di molto più problematico di una procedura medica, tanto che di solito è regolata da leggi apposite. Per eseguire la diagnosi preimpianto si deve creare un elevato numero di embrioni in provetta, per essere sicuri di averne abbastanza. Fra dieciventi embrioni generati, solo uno o due potranno svilupparsi: gli altri saranno lasciati morire in laboratorio o verranno destinati a una crioconservazione in azoto liquido, per un tempo difficilmente prevedibile.
L’errore può essere elevato, sia per il metodo in sé, sia per i falsi positivi e negativi; e d’altra parte, anche ipotizzando che l’embrione non venga danneggiato dalla manipolazione, nessuno garantisce che poi il figlio nasca sano, visto che escludere tutte le possibili malattie è evidentemente impossibile. La distruzione di un numero elevato di embrioni umani, però, è la tragica, ma logica conseguenza di un atteggiamento a monte, quello di chi vuole assolutamente un figlio in qualche modo legato biologicamente a sé, e per il quale dire ‘mio’ significa esprimere un possesso assoluto. E se un figlio viene percepito solamente come il frutto tanto atteso del proprio ‘diritto a procreare’ (espressione usata dal giudice di Salerno) allora deve nascere, e nascere sano: se il figlio è dovuto, se è un diritto che posso esigere addirittura dalle leggi dello Stato, allora non può essere malato.
E si arriva a dire che l’infertilità di una coppia non va intesa come impossibilità di procreare ma mera difficoltà di procreare, pericolo di procreare un figlio malato: affermazione che, presa alla lettera, significa che i genitori di un figlio gravemente disabile sono per definizione infertili, e che essere fecondi implica automaticamente avere figli sani. La diagnosi preimpianto è sempre usata per selezionare embrioni sani, ed è quindi una pratica intrinsecamente eugenetica: è illusorio pensare di poterla regolare circoscrivendola a casi estremi, a malattie mortali, gravissime. Se si ammette di avere un figlio solo a condizione che sia sano, allora l’elenco delle malattie da individuare sarà sempre più ampio: da quelle gravissime e certe fin dalla nascita si passerà a quelle che si svilupperanno da adulti, e solo con una certa probabilità, e che magari si possono anche curare. Potendo scegliere, perché far nascere qualcuno predisposto a una malattia?
Su una ventina di embrioni a disposizione, perché cercare solo le malattie mortali, e non anche disabilità meno gravose, come la sindrome di Down? Oppure si ammetterà, come avviene in Gran Bretagna, di creare embrioni geneticamente compatibili con fratellini già nati e malati, in modo da utilizzarne cellule e tessuti come farmaco salvavita. Dal 2001 il ‘bambino-farmaco’ è stato creato in questo modo per 24 volte e l’Hfea, l’authority inglese sull’embriologia, ha ammesso che solo per pochissimi casi si è arrivati alla guarigione del malato: in questi giorni si sta comunque discutendo se, anziché valutare caso per caso come fatto finora, non sia meglio estendere la pratica a un elenco preciso di condizioni patologiche. Ma può succedere anche il contrario. Qualche anno fa, in un’indagine della John Hopkins University, negli Usa, è emerso che il 3% delle cliniche ha effettuato diagnosi preimpianto per selezionare embrioni con disabilità, su richiesta dei genitori.
Se la priorità è il desiderio di papà e mamma, chi è legittimato a giudicare la bontà del desiderio? E di scelta in scelta, si arriva a una discussione degli ultimi mesi, sempre in Gran Bretagna, sulla liceità o meno di sottoporre a test genetici i bambini che stanno per essere adottati: lo scorso luglio sulla rivista Familial Cancer, due studiosi di Bristol riferivano di un aumento di richieste, da parte di coppie nella fase di pre-adozione, di sottoporre a test genetici i possibili futuri figli adottivi non per determinare lo stato attuale di salute, ma per avere informazioni sulla loro possibile salute futura. Non si tratta di voler mettere al mondo bambini destinati a soffrire; la scelta di responsabilità non significa scegliere di chi essere genitore, ma scoprire cosa significa essere genitore. È questa la posta in gioco nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita, e di questo dovremmo cominciare a parlare, senza scambiare le proprie aspirazioni con i propri diritti.
Tratto da Avvenire del 21 Gennaio 2010