Perché Obama è tanto duro con Israele e così morbido con la Siria?

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Perché Obama è tanto duro con Israele e così morbido con la Siria?

25 Giugno 2011

Una delle peculiarità legate alla primavera araba è stata l’emergere di una politica estera americana alquanto dimessa. L’amministrazione Obama ha insistito nel non assumere la guida di un cambio democratico nella regione; ha rifiutato di agire fino a quando sono entrati in azione non solo i francesi e gli inglesi, ma persino la Lega Araba.

E ancora non si sente pronta per dichiarare che Bashar al-Assad, un dittatore nemico implacabile dell’America che sta massacrando il suo popolo con carri armati ed elicotteri d’assalto, non è la persona giusta per condurre la Siria alla democrazia.

C’è però un’eccezione: il conflitto israeliano-palestinese. Riguardo a un fronte che nel 2011 è rimasto per lo più tranquillo, la posizione degli Stati Uniti è: a) abbiamo la soluzione giusta; b) bisogna passare subito all’azione; c) non importa se le persone coinvolte –israeliani e palestinesi– siano o meno d’accordo.

Quando si tratta del “processo di pace”, il timido Obama assume d’incanto una decisione di ferro. Ha parlato della Siria soltanto due volte negli ultimi tre mesi, cioè da quando sono iniziati i massacri; però ha trovato il tempo di rendere pubblici i termini americani per i negoziati tra Israele e Palestina senza aspettare il consenso del primo ministro israeliano, per di più a poche ore dall’incontro che avrebbe dovuto avere con lui alla Casa Bianca –è stato, probabilmente, l’atto più dispotico nelle relazioni Usa-Israele dai tempi dell’amministrazione Eisenhower.

Adesso, incoraggiato dall’Unione europea, Obama sta cercando di forzare israeliani e palestinesi a riavviare le trattative partendo dai parametri da lui stabiliti. Si dovrà aderire a queste condizioni entro il mese, dice Washington; il negoziato partirà a settembre. La scorsa settimana, gli inviati americani ed europei hanno fatto la spola tra Gerusalemme e Ramallah per strappare un “sì” a Benyamin Netanyahu e Mahmoud Abbas.

Sarebbe meraviglioso se questa diplomazia imperialistica avesse successo. Se ciò accadesse, si avrebbe la dimostrazione che la nuova dottrina dell’amministrazione Obama – tanto preoccupata dei presunti limiti della potenza dell’America, e della sua capacità di influire sul Medio oriente – è sbagliata.

Si pensi alle due parti che verranno trascinate al tavolo dei negoziati. Netanyahu guida una coalizione di centrodestra che quasi sicuramente verrebbe a crollare se accettasse i termini stabiliti da Obama – ai quali, in ogni caso, lui è contrario. La scorsa settimana, un alto funzionario israeliano mi ha fornito una lunga lista di modifiche indispensabili, a suo dire, affinché il suo governo possa accettare la formula Obama; e anche se tali modifiche venissero apportate, ha aggiunto, quel piano non andrebbe avanti “a meno che non ci sia una larga riserva di confidenza reciproca” tra i due leader, “che non c’è”.

Poi c’è Abbas, che a 76 anni sta progettando il ritiro. Per l’anno venturo, si è impegnato a cercare una riconciliazione con Hamas, organizzando elezioni per la sua successione e tentando di ottenere il riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni unite. Per due anni si è rifiutato di intavolare negoziati con Netanyahu, che disprezza. Persino Yasser Arafat appariva meglio disposto di lui rispetto alle dolorose concessioni senza le quali non ci sarà alcun accordo. E chi potrà mai garantire che il presidente palestinese che verrà eletto il prossimo maggio riprenda dal punto in cui Abbas ha lasciato?

Quel che è straordinario nell’iniziativa obamiana non sono i dettagli, che non differiscono molto dalle idee di Bill Clinton, George W. Bush e anche di diversi primi ministri israeliani che hanno preceduto Netanyahu. Quel che stupisce è l’atteggiamento da superpotenza smargiassa, lo sfacciato disinteressarsi tanto del punto di vista e della posizione politica del governo israeliano, quanto dell’irresponsabilità e dello stato di confusione dell’attuale dirigenza palestinese. Non preoccupatevi, è il messaggio implicito nella linea portata avanti da Europa e America: saremo noi a far sì che l’accordo si farà.

Che cosa può spiegare un tale atteggiamento, visto l’approccio timoroso verso il resto della regione? In parte, con la comprensibilissima frustrazione che deriva da anni di stallo tra israeliani e palestinesi, evidenziata dalla convinzione, largamente diffusa nei circoli diplomatici di Washington, che i termini della pace sono noti e ampiamente accettati, e devono soltanto essere messi in pratica. In parte, dal legittimo timore che il fronte israeliano-palestinese, per il momento calmo, possa esplodere tra qualche mese in seguito a un pronunciamento dell’Onu, e alimenti l’estremismo in paesi come l’Egitto. Eppure, il danno provocato da una risoluzione sulla Palestina da parte dell’Onu impallidirebbe di fronte alle conseguenze di una vittoria di Assad in Siria grazie all’aiuto iraniano, o di un fallimento della Nato in Libia. Eppure, quelle crisi non hanno spinto Obama ad assumere un ruolo guida.

C’è, nella sua diplomazia, l’implicita convinzione secondo cui gli Stati Uniti debbano, come prima cosa, occuparsi dei peccati del proprio assistito. “Ecco qui i fatti con cui tutti noi dobbiamo confrontarci” ha dichiarato Obama nel suo discorso tenuto, il mese passato, alla conferenza dell’associazione israelo-americana, prima di procedere a una disamina di demografia palestinese, politiche arabe e Nazioni unite. Non è che avesse completamente torto; però è rivelatore di questo presidente il fatto che sia tanto determinato quando parla con Benjamin Netanyahu, e lo sia così poco verso Bashar al-Assad.

© The Washington Post
Traduzione Enrico De Simone