Il nuovo Manifesto di Confindustria non fa che riproporre i vecchi schemi

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Il nuovo Manifesto di Confindustria non fa che riproporre i vecchi schemi

03 Ottobre 2011

E’ deludente il Manifesto di Confindustria. Nelle sedici pagine di presentazione del “Progetto delle imprese per l’Italia” non c’è spazio per la riforma del mercato del lavoro e neppure per quella degli ammortizzatori sociali. Perché la Marcegaglia ha taciuto su questi temi nonostante i forti richiami arrivati anche della Banca centrale europea? Davvero per il mondo produttivo italiano queste non sono questioni che frenano lo sviluppo, la ripresa e l’occupazione? Difficile da credere, eppure è così: forse soltanto per opportunismo (tanto sarà la Bce a imporcelo), ma nel Manifesto è scritto che per salvare l’Italia e rilanciare la crescita occorre riformare pensioni e fisco; vendere il patrimonio pubblico; liberalizzare e semplificare; infine, puntare su infrastrutture ed energia. Nulla c’è scritto, invece, riguardo a mercato del lavoro, ammortizzatori sociali e contrattazione.

Leggendo il testo, appare esasperante l’attenzione al problema del debito pubblico. Non per dire che la questione non meriti quest’attenzione; ma suona strano quel patos che accompagna la trattazione. Francamente, in quanto proveniente dal mondo imprenditoriale – «le imprese lanciano questo progetto ben sapendo di non rappresentare che una parte della società italiana», come affermato nel Manifesto – sarebbe suonata più logica che una simile lamentela fosse stata indirizzata a misure per potenziare direttamente la crescita, per produrre e per vendere di più, nonostante la crisi.

Stesso discorso per quanto riguarda la riforma fiscale. Secondo il Manifesto una misura cruciale ai fini del contrasto all’evasione consiste nel prevedere l’obbligo, per le persone fisiche (eh già! quelle giuridiche non evadono), di indicare il proprio “stato patrimoniale” nella dichiarazione annuale dei redditi (730 o Unico), per consentire di valutare la coerenza fra reddito e patrimonio. Insomma una sorta di “studi di settore” applicati alle famiglie: misera vendetta sullo strumento che sta strozzando numerose imprese o semplice lapsus? No, il fine è un altro; e peggiore come si capisce leggendo per interro la proposta.

L’obbligo dichiarativo, aggiunge il Manifesto, “può essere accompagnato da un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta e con una soglia di esenzione”; i soldi ricavati andrebbero a ridurre il prelievo diretto su imprese e persone. Insomma la misura dovrebbe consistere in una revisione delle attuali regole di tassazione, con l’introduzione di una nuova imposta “patrimoniale” al fine di racimolare risparmi da indirizzare alle imprese (e persone) come sconti Irpef o Irap. Fin qui tutto scontato, più o meno sulla falsa riga della richiesta insistentemente avanzata dalla Cgil. La novità, però, dovrebbe essere un’altra, e cioè quella di far rientrare nella base imponibile di questa nuova tassa patrimoniale anche il patrimonio mobiliare (titoli, azioni, partecipazioni, somme su conti correnti postali e bancari).

Lo “stato patrimoniale” indicato nel Manifesto, infatti, è qualcosa di più del “patrimonio” immobiliare dei Cittadini e che, già oggi, finisce in dichiarazione dei redditi. Infatti, già adesso c’è l’obbligo di indicare in Unico e 730 terreni e case, comprese la prima nonostante sia esente ai fini Ici e Irpef; è vero che si indica solo la “rendita catastale”, ma è facile per gli uffici finanziari risalire da questa al valore patrimoniale. Perciò, il nuovo obbligo riguarda l’altro patrimonio, quello mobiliare che oggi è fuori da ogni denuncia dei redditi, per arrivare a uno “stato patrimoniale” riferito a un quadro di ricchezza complessivo (da tassare) delle famiglie.

Sul versante delle liberalizzazioni e semplificazioni, il Manifesto chiede di eliminare ogni vincolo a favore della libera concorrenza. Qui la contraddizione è troppo forte per passare inosservata. Pochi giorni fa, infatti, la Marcegaglia ha fatto esattamente il contrario accordandosi con i Sindacati per vanificare, parzialmente, l’unica vera rivoluzione introdotta dal governo nella Manovra, ossia l’articolo 8 sulla contrattazione di prossimità che consentiva, previo accordo tra imprese e sindacati, di disapplicare pure l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori accusato “a destra come a sinistra” di essere un lacciolo alle assunzioni.

La verità, dunque, è che a parole siamo tutti bravi a celebrare soluzioni; ma quando si tratta di metterle in pratica, difficilmente si è capaci di trasformare le parole in fatti. E’ stato proprio così con la riforma della contrattazione e con l’articolo 8, e così è previsto anche nel Manifesto in cui la Marcegaglia enuncia un teorema sulla capacità del “cambiamento” di generare “più equità, maggiore ricchezza e riduzione dello stock del debito”.

Ma nei fatti? Nei fatti nulla di nuovo. Lo scopo, sempre lo stesso, è “recuperare risorse pubbliche per incentivare la crescita”, che significa mirare a ridurre il vecchio debito pubblico soltanto per permettersi la possibilità di farne di nuovo. E’ per questo che la proposta appare deludente. Deludente soprattutto per i giovani, siano lavoratori oppure imprenditori. Perché l’idea è stantia, appartiene a vecchie logiche e rientra negli antichi e falliti schemi di politica concertativa.