Vi racconto in che modo con Eltsin sventammo il golpe
19 Agosto 2011
Per la prima volta, il braccio destro di Boris Eltsin racconta dall’ interno la storia del colpo di stato che uccise la "glasnost" e cambiò il mondo.
"Quella gentaglia!" Boris Eltsin schiumava di rabbia. "E ‘un colpo di stato. Non possiamo permettergli di farla franca."
Era la mattina del 19 agosto 1991, e il presidente russo stava in piedi davanti alla porta della sua residenza in Arkhangelskoe, un complesso di casette di campagna fuori Mosca dove vivevano gli alti funzionari del governo russo. Ero corso fuori dalla mia vicina abitazione, dopo che un amico aveva chiamato da Mosca, disperato e quasi isterico, dicendo di accendere la radio. C’era stato un colpo di stato; il leader sovietico Mikhail Gorbaciov era stato deposto.
Cinque minuti dopo ero nella residenza di Eltsin, un modesto edificio di due piani in mattoni gialli, dove un piccolo gruppo di suoi più stretti collaboratori fu presto riunito. Oltre a me (a quel tempo, suo segretario di stato), c’era Ivan Silajev, il capo gabinetto russo, Ruslan Khasbulatov, il presidente in carica del Soviet supremo; Mikhail Poltoranin, il ministro della stampa e dei mass media; Sergei Shakhrai, il consigliere di stato, e Viktor Yaroshenko, il ministro delle relazioni economiche estere. Anatoly Sobchak, il sindaco di Leningrado, e Yuri Luzhkov, il vicesindaco di Mosca, arrivarono non molto tempo dopo. Tutti ammassati nel piccolo soggiorno di Eltsin.
Per mesi c’eravamo aspettati qualcosa di simile. Dall’estate del 1991, l’Unione Sovietica stava cadendo a pezzi. L’economia stava implodendo, il deficit si stava gonfiando, la moneta forte e le riserve d’oro erano state decimate, e le riforme tappabuchi di Gorbaciov avevano solo aggravato la crisi. La nozione di "popolo sovietico", unificato sotto la bandiera del socialismo, stava crollando con essa. I governi delle repubbliche, che avevano già chiesto maggiori libertà all’interno dell’URSS, iniziavano a chiedere l’indipendenza. Dalla primavera del 1991, cinque repubbliche – Armenia, Estonia, Georgia, Lettonia e Lituania – l’avevano dichiarato ufficialmente. In Russia, le forze democratiche volevano porre fine al regime totalitario sovietico. Il nostro obiettivo non era quello di permettere la caotica dissoluzione dell’URSS, ma di trasformarla in una confederazione che avrebbe consentito a ciascuna repubblica una notevole autodeterminazione sotto la sua egida.
Ci eravamo mossi in questa direzione da diversi anni. Eltsin e gli altri candidati democratici erano stati eletti nel parlamento russo nel 1990 con l’obiettivo di garantire più legalità proteggendo diritti e libertà, così come un’economia di mercato, ed Eltsin era stato eletto presidente della Russia nel giugno del 1991 con quasi il 60 per cento dei voti. Ma mentre eravamo sicuri del nostro mandato popolare, eravamo del tutto incapaci di affrontare la più grande minaccia per la Russia: il collasso economico. Oltre il 93 per cento dell’economia, secondo la nostra stima, era controllato dal governo sovietico. Eltsin e quelli di noi della sua cerchia di stretti collaboratori ben presto arrivammo a credere che se non volevamo essere solo un governo fantoccio, avremmo dovuto cambiare le basi giuridiche ed economiche della stessa unione.
Anche Gorbaciov e un piccolo gruppo di riformatori avevano accettato questo. Iniziammo a lavorare insieme ad un nuovo trattato di alleanza che avrebbe trasformato l’Unione Sovietica in una confederazione di stati sovrani, con un governo centrale limitato. Eltsin decise di sottoscrivere il controverso patto il 20 agosto.
Mentre ci aggiravamo nel soggiorno di Eltsin la mattina del 19 agosto, fu immediatamente chiaro che il colpo di stato era un tentativo dell’ultima ora per evitare che il trattato fosse firmato il giorno successivo. Ma questa era l’unica cosa che era chiara. Gli americani guardando gli eventi svolgersi in diretta sulla CNN conoscevano più di noi quello che stava succedendo in Russia; i presentatori dei notiziari a Mosca leggevano semplicemente un comunicato ufficiale rilasciato dai golpisti frettolosamente denominato "Comitato d’emergenza”. L’ informazione arrivava alla residenza a spizzichi e bocconi, attraverso telefonate di amici e colleghi da Mosca e altre parti della Russia. Un amico chiamò per dire che tutti i telegiornali erano stati cancellati, un altro per dirci che carri armati e auto blindate si stavano avvicinando alla città. Non avevamo idea se Gorbaciov – il cui rapporto con Eltsin era stato segnato dal sospetto – era stato catturato contro la sua volontà o era stato in qualche modo complice dei golpisti.
Il semplice fatto che noi fossimo ancora liberi era inspiegabile. I golpe di successo non avvengono a tappe; un gruppo di complottisti più esperto ci avrebbe catturato e nel momento chiave carri armati e truppe sarebbero entrate nella capitale. Capimmo quanto eravamo vulnerabili. L’ unica arma che avevamo era l’ufficio di presidenza e la nostra legittimità come governo eletto della Russia. Decidemmo subito di redigere un appello pubblico. Khasbulatov, Poltoranin ed io scrivevamo su dei pezzi di carta mentre gli altri dettavano le frasi. Qualcuno portò una vecchia macchina da scrivere, e la figlia trentunenne di Eltsin, Tatyana, batteva l’indirizzo con un dito. Anche Naina, la moglie di Eltsin e l’ altra figlia Lena gironzolavano attorno, preoccupate per lui e arrabbiate per la situazione allo stesso tempo.
Smettevamo di lavorare solo quando Eltsin era al telefono con qualcuno, e allora stavamo tutti ad ascoltare la sua versione della conversazione. Una delle sue prime chiamate fu quella al Gen. Pavel Grachev, il comandante delle truppe aviotrasportate dell’esercito sovietico, che Eltsin aveva conosciuto poche settimane prima durante una cerimonia di visita ai suoi soldati. Tra i due era nata subito un’ intesa. Al telefono, Eltsin espose al generale la nostra posizione. "Posso contare sul vostro sostegno?" chiese. "Compagno presidente" Grachev rispose, "sarà difficile per me, ma cercherò di fare tutto quel che posso."
Eltsin chiamò anche il leader kazako Nursultan Nazarbayev e il dirigente principale del partito ucraino Leonid Kravchuk, teste delle repubbliche più grandi e più influenti. Le conversazioni furono brevi: "Hai sentito?" "Abbiamo sentito." Nazarbayev disse che doveva pensarci. Kravchuk disse che ci avrebbe appoggiato, ma avrebbe dovuto convocare il Presidio, il più alto organo legislativo dell’ Ucraina, prima di agire.
Terminammo il nostro appello alle 9. Nella nostra dichiarazione, definimmo le azioni del Comitato di Emergenza "di destra, reazionarie, anti-costituzionale colpo di Stato". Chiedemmo che Gorbaciov potesse comparire a Mosca in una sessione speciale del congresso. Invitammo le autorità locali russe a rispettare le leggi e i decreti del presidente russo, ai militari di astenersi dalla partecipazione al colpo di stato e ai cittadini di prendere parte a uno sciopero generale. Scrivemmo che eravamo certi che il mondo avrebbe condannato questa azione illegale. Completato il testo, cominciammo a faxarlo al mondo esterno.
Inviato l’ appello, lasciammo il compound per la Casa Bianca, sede del governo repubblicano e del parlamento di Mosca; la residenza era semplicemente troppo vulnerabile e difficile da difendere. Ci dirigemmo verso la città in auto separate e per strade diverse. Viaggiai con Eltsin e una scorta di due uomini. La strada per la città era sgombra; durante il percorso scherzammo sul fatto di dare una pistola Eltsin, ma alla fine egli rifiutò, dicendo: "E’ per questo che abbiamo la scorta". Quando arrivammo alla Casa Bianca non c’ erano ancora polizia o carri armati, ma c’erano già alcuni gruppi di sostenitori, diplomatici stranieri e giornalisti che avevano sentito parlare del nostro appello.
La Casa Bianca era ora la ground zero della resistenza ai golpisti. In breve tempo inviammo Andrei Kozyrev, il neo nominato ministro degli esteri russo, in varie capitali occidentali, con una lettera personale di Eltsin. Fuori, la gente veniva da stazioni ferroviarie e aeroporti, da paesi lontani e città, e si univa ai moscoviti nei pressi delle mura della Casa Bianca, dove cominciarono a costruire barricate. All’inizio erano rudimentali, messe in piedi con qualsiasi materiale a portata di mano. Ma alla sera i nostri sostenitori prepararono trincee più solide fatte di filobus, automobili e materiali da costruzione, bloccando tutti gli accessi all’ edificio.
Nel pomeriggio del primo giorno, stavamo discutendo i nostri piani nell’ ufficio di Eltsin, quando un aiutante si precipitò dentro e ci disse che alcuni dei soldati erano usciti dai loro carri armati davanti al palazzo per parlare con la gente. Eltsin balzò in piedi e disse: "Io vado là fuori".
Obiettai "Non si può fare", gli dissi. "E ‘un rischio enorme. Non abbiamo alcuna idea di ciò che i golpisti potrebbe fare. E’ troppo pericoloso".
Eltsin non mi ascoltò. Disse a qualcuno di passargli una copia dell’ appello e si diresse fuori dall’ ufficio. Tutti gli corremmo dietro. Una volta fuori, per la disperazione delle sue guardie del corpo, si arrampicò su un carro armato davanti alla Casa Bianca per leggere l’appello. Non sapendo cos’ altro fare, tutti salimmo dietro di lui. La folla era arrivata a 30.000 persone circa e iniziò a riempire la piazza di applausi. In mezzo alla folla, schioccavano gli scatti delle macchine fotografiche. Non avevamo ancora vinto la guerra, ma quando l’immagine di Eltsin sul ​​carro armato campeggiò sulle prime pagine nel mondo, avevamo almeno vinto la battaglia dei simboli.
Poco prima della mezzanotte, una mezza dozzina di carri armati dell’esercito erano formalmente passati dalla nostra parte, posizionandosi a difesa della Casa Bianca. Dentro, lavorammo tutta la notte monitorando i movimenti delle truppe nella città e mantenendo i contatti con i nostri alleati e sostenitori in tutto il paese. Eltsin, sempre meticoloso, rimase nel suo completo giacca e cravatta. I giornalisti, i collaboratori, e alcuni deputati si riposarono sui divani. Fu una notte lunga e incerta.
Le dichiarazioni iniziali dei principali leader occidentali ai quali avevamo chiesto appoggio erano tiepide e diplomatiche; tutti sembravano pensare che il colpo di stato fosse cosa fatta. Ma il sostegno venne fuori il secondo giorno grazie a Kozyrev, ai diplomatici a Mosca, allo stesso Eltsin, che lavorò instancabilmente ai telefoni. Gli americani si offrirono anche di fornire una via di fuga per Eltsin e il governo attraverso l’ambasciata americana, che si trovava dall’altra parte della strada rispetto alla Casa Bianca. Fummo un pò stupiti dalla proposta, visto che non ci era mai accaduto. Li ringraziammo, ma rifiutammo l’offerta.
La seconda notte mi svegliai seduto nel mio ufficio. Avevamo appreso da vari informatori che i golpisti stavano progettando di assaltare la Casa Bianca alle 3 del mattino, scendendo sul tetto dall’elicottero mentre le truppe di terra si sarebbero aperte un varco tra la folla – che adesso contava quasi 100.000 persone – di fronte all’edificio. Carri armati e personale di supporto si erano già collocati in postazioni difensive in tutta la città. Tre giovani erano stati uccisi mentre cercavano di fermare una colonna di carri armati, non lontano dalla Casa Bianca. C’ erano notizie che più carri armati si erano messi in marcia. Su insistenza della sua scorta personale, un Eltsin riluttante si era rifugiato nei sotterranei dell’edificio.
Quando giunse l’ora dell’ atteso attacco, presi il telefono. Dapprima provai a chiamare Gennady Janaev, vice presidente di Gorbaciov e leader del golpe, al Cremlino, senza alcuna fortuna. Poi contattai Vladimir KrjuCkov, presidente del KGB, che come suggeritoci dalla nostra intelligence era al comando delle operazioni. Non volevo mostrare alcun segno di vulnerabilità, così quando rispose iniziai con decisione: "Non capisci che non hai speranze?" E chiesi che ordinasse il ritiro delle truppe.
KrjuCkov negò tutto. Non stava succedendo niente, insistette; la gente era solo spaventata da noi. Poi alzò il tono infuriato. "Ora chi pagherà per riparare le strade che sono state distrutte per costruire le barricate?" gridò. Si lanciò in una lunga invettiva su noi democratici, accusandoci di sostenere gli estremisti e di aizzare la folla fuori dalla Casa Bianca. Era incredibile: eravamo nel cuore della notte, con i carri armati che avanzavano verso la Casa Bianca e tre giovani morti, e l’ uomo responsabile di tutto questo mi stava rimproverando per la mia ideologia e sgridando per “aver portato un gruppo di sobillatori" alla Casa Bianca. Fui preso alla sprovvista. Gli dissi che coloro che avevano inviato le truppe erano responsabili della morte dei ragazzi e gli chiesi di nuovo di fermare la loro avanzata.
KrjuCkov si calmò un po’ e disse che avrebbe controllato, pur insistendo sul fatto che la nostra informazione era tutta sbagliata. Ma le notizie continuarono ad arrivare, e lo richiamai intorno alle 5, chiedendo una risposta. Mi disse che aveva controllato e che nessun veicolo blindato si stava muovendo verso la Casa Bianca.
Questa volta stava dicendo la verità. I carri armati erano stati fermati – non, però, perché i golpisti fossero rinsaviti ma perché troppi comandanti delle milizie e del KGB si erano rifiutati di eseguire i loro ordini. Tra di loro c’era Grachev, il generale che Eltsin aveva chiamato il 19 agosto; le informazioni che l’intelligence ci aveva fornito sui piani dei cospiratori e il suo rifiuto definitivo di eseguire gli ordini furono tra i fattori determinanti del fallimento finale del colpo di stato e della nostra sopravvivenza. Il presidente poteva, infatti, contare su di lui.
Dalle 8 i carri armati iniziarono a lasciare la città. Gorbaciov tornò a Mosca, quella sera, ma non tornò a casa – giunse in un altro paese. Il centro del potere era adesso alla Casa Bianca con Eltsin, non al Cremlino. Non c’era più alcuna possibilità di un nuovo trattato di alleanza. In poche settimane, il sodalizio governo e Partito comunista collassò e le repubbliche si frantumarono.
Il fallimento del golpe di agosto fu sia ironico che tragico. Nell’ adottare misure straordinarie che credevano fossero necessarie per tenere insieme l’ alleanza, i golpisti ne avevano assicurato la distruzione. Senza il colpo di stato, l’alleanza avrebbe probabilmente tenuto, anche se in una forma che poteva avvicinarsi più all’Unione europea che alla vecchia Unione Sovietica. Ma i tre giorni di stallo a Mosca cancellò questa possibilità.
Una graduale trasformazione dell’Unione Sovietica sarebbe stata gestibile; il collasso immediato causato dal colpo di stato fu disastroso. Il golpe fu la Cernobyl politica dell’ impero totalitario sovietico. Come la fusione di un reattore nucleare difettoso, il fallito putsch rase al suolo il paese, spargendo i resti radioattivi del sistema sovietico su tutto il territorio. Nel giro di un mese, le élite comuniste, ad ogni livello ebbero nuovi posti di lavoro nelle amministrazioni statali e governativi. Riempirono i ministeri ed entrarono in affari. Le stesse persone che avevano combattuto contro le riforme radicali politiche ed economiche di cui avevamo disperatamente bisogno ora si erano infiltrati in organizzazioni, aziende e rami di governo che avrebbero dovuto cacciarli.
Ma non era solo il popolo che era stato disperso dall’esplosione. Il corpo di un impero può collassare e l’anima della sua ideologia può essere messo da parte, ma il suo spirito continua a vivere. Nella Russia di oggi persiste nella rinascita della fede in Stalin come un grande leader, nella manipolata nostalgia per la falsa stabilità e la potenza del periodo sovietico, nella xenofobia e nell’intolleranza, nella mancanza di rispetto per i diritti civili e umani, nella corruzione dilagante, nell’ arroganza e mentalità di alcuni dei nostri leader e molti dei nostri cittadini.
Questa è l’eredità velenosa di questi tre giorni dell’ agosto di 20 anni fa. Vale la pena di rivisitare la storia ora, non dopo perché la radioattività del putsch ha colorato la memoria della Russia del putsch stesso. Il tentativo di golpe ci ha privato della possibilità di evolvere gradualmente, di acquisire esperienza pratica per sradicare le vestigia imperiali di pensiero e comportamento. E rovinato la promessa di una Russia democratica prima ancora di aver cominciato.
Tratto da Foreign Policy
Traduzione di Alfredo D’Alessandro