Erdogan deve andarci cauto con la Siria visti i problemi che ha coi militari
10 Agosto 2011
Fa quasi sorridere leggere le cronache di questi ultimi giorni sulla repressione della rivolta in Siria. I nostri giornali parlano di una "offensiva diplomatica", quella lanciata dai sauditi e dal consiglio del Golfo, contro il regime degli Assad, e molti commentatori guardano alla Turchia come alla potenza chiave per costringere gli alawiti a fermare le violenze. Ma né le rimostranze del blocco dei Paesi sunniti, né la visita di ieri del ministro degli esteri di Ankara a Damasco avranno una qualche influenza sulla politica interna siriana, almeno non nel breve e medio periodo. Sappiamo, innanzitutto, che difficilmente i Paesi del mondo musulmano entrano in questioni che non li riguardano. Gheddafi è sempre stato odiato dagli altri leader arabi ma eccetto qualche caccia mandato simbolicamente dalle petrocrazie del Golfo in Libia, poco si è fatto per aiutare i ribelli di Bengasi. C’è da dire poi che i sauditi sanno che accadrebbe con l’Iran nel grande gioco della guerra fredda islamica, essendo Teheran il primo pilastro e bastione del regime siriano. La Turchia invece potrebbe sicuramente ergersi a modello democratico e stato-guida della regione ma ad Ankara c’è timore di uno tsunami migratorio (centinaia di chilometri di confine), e soprattutto ad Erdogan non conviene premere troppo sull’acceleratore perché, se mai un giorno le Nazioni Unite chiedessero di intervenire ad Hama, il premier turco dovrebbe guardarsi le spalle dall’esercito e dal potere militare con cui, almeno attualmente, il governo islamico è ai ferri corti.