Bersani & C. giocano la carta della coesione nazionale per buttare giù il Cav.
13 Luglio 2011
Non è facile frenare la propria dipendenza da antiberlusconismo e fermare quella sorta di muscolo involontario che fa votare “no” a qualunque proposta firmata dalla maggioranza. Ma questa volta l’opposizione, di fronte alla pressione della speculazione internazionale e le sollecitazioni alla responsabilità firmate da Giorgio Napolitano, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e assicurare la propria collaborazione per una veloce approvazione della manovra. Un’operazione da chiudere entro la fine della settimana, con ogni probabilità entro venerdì. Un pacchetto che servirà da biglietto da visita per l’economia italiana nei prossimi mesi, a dare un segnale forte ai mercati e a tagliare le ali alla speculazione.
La linea, d’altronde, è sostanzialmente firmata dal Colle: la manovra economica va varata subito e senza strappi per non mettere l’Italia alla mercé dei raiders e impedire che la nave Italia si ribalti nel bel mezzo della tempesta speculativa. Per questo è stata archiviata la classica corsa all’emendamento e all’ostruzionismo e i tempi sono stati contingentati severamente: due giorni al Senato, uno appena alla Camera, ferma restando la scontata contrarietà dell’opposizione al momento del voto. "Considerata la gravità del momento – spiega il capogruppo Pd alla Camera Dario Franceschini – e raccogliendo l’appello del Presidente della Repubblica, fermo restando il giudizio negativo sulla manovra, siamo disponibili a permetterne la votazione entro venerdì”. D’accordo tutte gli altri gruppi di opposizione, che si sono riuniti per sancire il matrimonio con la linea quirinalizia: Udc, Fli, Api e Italia dei Valori con l’aggiunta dei Libdem di Daniela Melchiorre e Italo Tanoni. Un via libera legato anche alla disponibilità all’ascolto dimostrata da Giulio Tremonti nel faccia a faccia con le opposizioni. "E’ stato un incontro utile" spiega Nicola La Torre, vicepresidente del gruppo del Pd al Senato. "C’è stata la disponibilità del ministro ad accogliere alcune nostre proposte, specie sulle pensioni".
In realtà il Pd nel nuovo abito “responsabile” ci sta stretto. E vorrebbe tanto riuscire a prendersi il braccio dopo aver allungato una mano alla maggioranza. Ovvero vorrebbe riuscire a trasformare questa apertura nel primo atto di un abbraccio mortale che porti alla caduta del governo, anche per non essere tacciato – dall’elettorato più estremo – di consociativismo o di intelligenza con il nemico. L’attenzione, insomma, è già spostata verso il “dopo”. Quindi se da un lato le opposizioni confermano la linea della “responsabilità” chiesta da Napolitano, dall’altro la richiesta, ripetuta a più riprese dal Pd, è la stessa di sempre: le dimissioni del governo. Su questo è intervenuto in maniera chiara Pier Luigi Bersani: "Noi facciamo la nostra parte ma Berlusconi non è un elemento di fiducia né per l’Italia né per il contesto internazionale".
La mappa degli sviluppi politici è dunque facilmente tracciabile. La manovra verrà varata di gran carriera. Poi si aprirà una partita diversa. "Che succederà dopo? Tutto sta a vedere come reagiscono lunedì i mercati, e se l’approvazione di questa manovra basterà a rassicurarli" diceva Walter Veltroni ieri a Laura Cesaretti del Giornale. Un dubbio, quello instillato dall’ex sindaco di Roma, che si può facilmente tramutare in una speranza un po’ malandrina. Il senso del ragionamento, visto in filigrana, è infatti una sorta di certificazione della chiusura del credito internazionale verso il governo Berlusconi. Come dire che se lunedì gli attacchi all’Italia – nonostante l’approvazione della manovra – dovessero riprendere, allora, nei ragionamenti dei dirigenti di Via del Nazareno, per l’esecutivo sarebbe difficile resistere senza fare un passo indietro.
A quel punto a decollare sarebbe l’ipotesi di un governo tecnico, il classico esecutivo guidato da un tecnocrate gradito a mercati e a poteri forti assortiti. Poco entusiasmo, invece, per le elezioni anticipate che costringerebbero chiunque vincesse alle montagne russe dell’instabilità e alla poca gloria del rigore obbligato. "Berlusconi deve dimettersi – spiega Massimo D’Alema – perché evidente che c’è un problema di credibilità. Poi si potrebbe dare vita ad un governo di fine legislatura per affrontare la crisi e cambiare la legge elettorale". Un governo che arrivi a tagliare il traguardo del 2013 e si faccia carico di quella stagione dei sacrifici tale da sgravare del “lavoro sporco” qualunque governo politico venga dopo.
Il nome più gettonato resta quello di Mario Monti, molto apprezzato da Rosy Bindi che vede in lui il pivot ideale di un esecutivo che nei desiderata del Pd non dovrebbe comprendere nessuno dei ministri attuali. Qualcuno già lo definisce un “governo del presidente”, facendo capire che Giorgio Napolitano, qualora questa ipotesi prendesse corpo, non avrebbe solo il compito del semplice notaio ma quello di un influente garante e supervisore. Naturalmente, però, lo scenario caro ai democratici è ben incastonato nella dimensione parallela della speranza. O più semplicemente nell’accogliente reame dei sogni irrealizzabili.