Sul biotestamento si combatte una battaglia di civiltà in nome di valori condivisi

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Sul biotestamento si combatte una battaglia di civiltà in nome di valori condivisi

14 Luglio 2011

Mario, il nome è nostro, ha settant’anni, è in stato vegetativo da cinque, proprio gli anni che la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento approvata a larga maggioranza ieri alla Camera (e in attesa del perfezionamento in terza lettura del Senato) ha stabilito come necessari per assicurare una qualche validità alla volontà di un paziente e anche alla ricerca scientifica che in cinque anni può fare passi da gigante.

Mario ha avuto un’emorragia cerebrale che lo ha ridotto ad essere – direbbero Beppino Englaro, Ignazio Marino, Nichi Vendola, Rosy Bindi e tutti quelli che hanno attaccato la legge in molti casi senza neanche leggerla – un “vegetale”, un uomo senza speranze, un morto vivente. Eppure Mario oggi riesce ad eseguire un ordine complesso, come portare un bicchiere alla bocca e poi restituirlo nelle mani di un medico. Il miglioramento di Mario è stato possibile grazie alla sperimentazione di un ciclo di trattamenti volti alla stimolazione del cervello da fuori, raccontano i medici che hanno realizzato il programma, stimolazioni realizzate “appoggiando degli elettrodi sulla testa del paziente. Questi creano un campo magnetico che si trasforma in campo elettrico. Dopo dieci minuti di trattamento gli abbiamo impartito l’ordine e lui ha obbedito”.

Un miracolo? Forse. Più probabilmente un progresso della scienza medica, nel campo neurovegetativo. Uno di quei progressi in cui credono i sostenitori della legge sulle Dat quando lasciano come ultimo e unico parere vincolante nella decisione del fine vita di un paziente in stato vegetativo il parere del medico curante. A chi altri, del resto, può spettare la decisione ultima sulle nostre cure se non ad un medico? Se anche ci trovassimo in uno stato di piena coscienza chi può mai obbligare il proprio medico di fiducia ad impartirgli le cure che desidera? Lo si può forse al massimo indirizzare, ma quale bravo medico abdicherebbe con tanta facilità al proprio ruolo, che è quello di trovare la cura giusta per il proprio paziente agendo, come si dice, in scienza e coscienza?

Qualunque persona di buon senso sa quale sia la risposta più vera e condivisa a queste banali domande. Eppure di fronte alla semplice affermazione secondo la quale quel che accade in uno stato di piena coscienza a maggior ragione deve accadere in quello di incoscienza si levano le critiche dei difensori del principio di autodeterminazione a tutti costi, si grida all’oscurantismo, alla violenza illiberale che toglie persino la volontà di decidere ai cittadini, quando non addirittura si arriva a dire che la legge sul testamento biologico che è uscita dall’aula di Montecitorio è solo «una vendetta dopo il caso di Eluana Englaro».

Certo, la legge un merito ce l’ha senz’altro, ed è questo: ha riaffermato il primato del Parlamento sulla prepotenza di una magistratura a dir poco creativa che ha condotto alla condanna – direbbe qualcuno – o alla morte – secondo altri – di Eluana Englaro. Così come ha avuto il grande merito di creare un ampio dibattito pubblico, dentro e fuori il Parlamento, che ha elevato il grado di consapevolezza e di riflessione su questi temi. Come ha giustamente rilevato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, nel suo editoriale di oggi, questo dibattito e questa approvazione è tanto più significativo in un momento di grande crisi della politica, segno dell’esistenza di un orizzonte di valori comune che lascia ancora qualche speranza a questo dilaniato paese.

Da quanto emerge da questo dibattito, e dalla successiva approvazione infatti, appare chiaro come la maggioranza dei parlamentari, e quindi si presume del paese, si proclami contro l’eutanasia e a favore della vita, sia contro l’accanimento terapeutico, ma anche contro l’abbandono di un paziente fortemente handicappato e soprattutto non può accettare che uno Stato, attraverso il suo sistema sanitario, si spenda per la morte e non per la cura dei propri cittadini. Forse hanno ragione le Cassandre di sinistra, che hanno già pronosticato come andrà a finire: ancora uno scontro all’arma bianca tra politica e magistratura realizzato a suon di sentenze e raccolte di firme in giro per il paese per indire l’ennesimo referendum. Ma siamo certi che anche stavolta come è accaduto nel passato né i giudici né i referendari sono davvero in linea con quel che pensano, e ciò in cui credono, gli italiani.