Piano piano… Gheddafi, Assad e alla fine l’Iran

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Piano piano… Gheddafi, Assad e alla fine l’Iran

24 Agosto 2011

Il realismo è certamente una dote che permette di rimanere aderenti ai fatti ed evitare brutte illusioni tipiche di chi antepone le proprie idee alla realtà. Così negli ultimi giorni abbiamo seguito con attenzione cosa dicevano gli analisti che mettono in guardia da una sconfitta immediata del Colonnello Gheddafi, spiegando che conquistare Tripoli, una metropoli di tre milioni di abitanti, non è facile. Come pure stiamo dietro all’evolversi della situazione sul terreno: Moreno Ocampo aveva dato Seif al Islam in manette verso l’Aia e invece il figlio di Gheddafi ieri rilasciava impunemente interviste ai giornalisti francesi chiamati a raccolta nel bunker del padre, che a quanto pare però nelle ultime ore è stato espugnato dai ribelli. Si combatte ancora nei centri petroliferi di Zuara e a Sabha.

Continuiamo anche a prestare ascolto a chi ha smontato rapidamente i facili entusiasmi di un Occidente che si era innamorato delle sommosse di piazza, credendo in buonafede al mito della "primavera araba". Tutti si chiedono cosa accadrà in Tunisia, da dove è iniziato tutto. In Egitto invece è chiaro che non c’è stata una rivoluzione, bensì semplicemente un cambio della guardia piuttosto cruento tra Mubarak e i suoi generali. Nei Paesi del Golfo, dal Baharain allo Yemen, fosche nubi si addensano sulle proteste popolari, dalla gelida vandea imposta dai sauditi (l’intervento in funzione anti-iraniana nell’arcipelago del Bahrain), al presagio di un nuovo paradiso del terrore quaedista nello stato guidato da Saleh, il presidente messo in quarantena dagli americani. Il gelsomino ha inizato a sprigionare una puzza di marcio che non promette nulla di buono.

Lo stesso discorso vale evidentemente per la Libia. Nei mesi scorsi abbiamo meditato sulle parole di chi spiega quale grande differenza vi sia tra le "narrazioni" dell’Occidente, per esempio l’esportazione della democrazia (anche se adesso non si chiama più così ed ha il cappello ONU), che tornano comode ai volenterosi che per primi si sono impegnati nella guerra contro la Jamaria (Francia e Regno Unito), e la dura realtà sul campo, una guerra civile che ha spaccato la Libia e adesso apre complessi scenari sulla successione al Rais, da un punto di vista etnico, religioso, tribale, geo-politico.

Sappiamo che il rappresentate ufficiale del CNT di Bengasi, quel Jalil che il presidente Sarkozy si appresta ad accogliere come il figliuol prodigo, è un uomo che può vantare un’autorità di stampo religioso più che delle credenziali di democratico, perché di questo si tratta, secondo i realisti, di aver confuso i nostri valori, la libertà, la democrazia, con personaggi e Paesi che stanno seguendo una strada che non è quello che immaginavamo. Ed è possibile che lo sbocco sia identico: la nuova autorità libica fa sapere che lascerà in libertà al Megrani, il terrorista della strage di Lockerbie.

C’è poi lo spettro dell’Iraq: Gheddafi potrebbe aver predisposto una reazione di tipo "stay-behind" come quella progettata dai generali di Saddam Hussein. Washington e Parigi invitano alla massima cautela e sembra che siano truppe speciali Usa a vigilare sui depositi di gas mostarda edificati nel corso degli anni dal Colonnello. Certi "errori", il riferimento, ovviamente, è al dopoguerra iracheno come venne gestito dall’amministrazione Bush, non vanno ripetuti. Guardiamo bene in faccia chi sono i nostri interlocutori in Libia e quando Cameron dice che le potenze occidentali aiuteranno la transizione assicuriamoci che in questo passaggio di consegne sia garantito un congruo numero di lasciapassare ai pezzi da novanta del regime che hanno defezionato.

Preghiamo il cielo che alla fine non ci diremo, rassegnati, che in fondo si stava meglio quando si stava peggio, come ripetono a cantilena tutti quelli che si sono sempre turati il naso di fronte alle dittature di stampo terzomondista perché servivano a "mantenere l’ordine" in quell’universo confuso che prende il nome di mondo islamico, con cui noi non vogliamo assolutamente avere nulla a che fare, l’importante è che continui a pompare benzina nei serbatoi dei nostri Suv il giorno di ferragosto.

Ne abbiamo ingoiate di lezioncine realiste, dopo il congedo di Bush e con l’avvento del soft-power (non tanto soft) del Presidente premio nobel per la pace Barack Obama. Iniziando dalla retorica furbacchiona del discorso del Cairo, un modo solenne di dire ragazzi, la guerra è finita, si torna a casa, adesso i popoli del mondo arabo e musulmano se la vedranno da soli. E in effetti è andata così, se la sono vista da soli. E ci mancava pure che non li lasciassimo fare.

Ma guardando i pick-up scassati dei ribelli che scendono dalle Nafusa Mountais sotto l’ala protettiva della benevolente Francia (sì, sì, ce lo ricordiamo l’incipit della "Battaglia di Algeri"…), i banditi, i ratti, come li chiama Gheddafi, entrare a Tripoli mentre la folla di Bengasi e delle altre città in rivolta (chiamatela pure popolo bue se vi dispiace) esulta alzando le dita in segno di vittoria, oggi vogliamo metterlo per un momento in soffitta, il realismo, e issare nuovamente la bandiera degli ideali di un tempo che, ma guarda un po’, non è passato invano. Solo qualche anno fa, era il 2005, i cuori battevano per la Rivoluzione dei Cedri in Libano, per le elezioni in Iraq oppure com’è accaduto alla notizia della eliminazione di Bin Laden. Come quando abbiamo assistito all’omicidio della povera Neda e gioito per la Rivoluzione Verde, che non è finita, solo addormentata.

Gli ideali sono gli stessi, piaccia o non piaccia, solo che si applicano ad un contesto e a degli scenari che sono mutati, pur conservando lo stesso ragionevole tasso di contraddizione. Dieci anni fa, un presidente che appena eletto non si sarebbe mai sognato di impelagarsi nella difficile agenda delle questioni internazionali, George W. Bush, si trasformò nel più spietato becchino delle tirannie di questo mondo, con una perseveranza che non si ricordava da anni in America e che ha riportato alla mente il clima della lotta al nazi-fascismo. Il nemico principale, in quel momento, non erano certo i pagliacci come Mubarak e Gheddafi, che anzi ebbero una funzione di "alleati" nel mondo arabo (non avrebbero potuto fare altrimenti), quanto piuttosto il terrorismo islamico, Al Qaeda e Bin Laden.

Da questo punto di vista, chi continua a chiedersi se abbiamo vinto o perso la guerra in Afghanistan sbaglia bersaglio, perché la riappacificazione con i Talebani, se mai ci sarà, non è che un capitolo di un conflitto permanente che vede alti bassi, colpi memorabili come l’uccisione di Bin Laden e attentati sanguinosi contro i musulmani che non si piegano (e contro gli occidentali che li proteggono), come insegnano gli attacchi sanguinosi in Pakistan, Afghanistan e Iraq di cui non si parla più.

C’è quindi una dimensione "a-temporale" della lotta al terrore ed una più storicizzabile della lotta di liberazione contro le dittature del mondo arabo, quella missione che indusse i liberal come Paul Berman a salutare Bush come il liberatore del popolo iracheno. Nel primo caso, abbiamo sferrato attacchi decisivi contro il terrorismo, che continuerà comunque a riorganizzarsi e ad operare secondo i suoi disegni malvagi. Nel secondo caso, gli errori, le menzogne alla bisogna, i sordidi interessi e le varie disumanità, che sono stati imputati all’amministrazione Bush in Medio Oriente, non riescono comunque a sminuire il successo del nuovo Iraq, una democrazia (ovviamente non siamo sul prato ben curato della Casa Bianca) che  oggi si presenta davanti ai popoli del Nordafrica come un modello di governo utile almeno quanto quello turco.

Quattro anni fa, un presidente che per tradizione politica e storia personale avrebbe potuto  reinterpretare ed emendare l’eredità di Bush, la "Freedom Agenda", stiamo parlando di Barack Obama, si è lavato le mani della questione islamica, assumendo una piattaforma di politica estera di puro contenimento. Certamente sul fronte della guerra al terrorismo sono stati raggiunti risultati importanti come  la eliminazione di Osama e l’incremento (esponenziale) dell’uso dei droni contro Al Qaeda e i Talebani al confine tra Pakistan e Afghanistan, ma su quell’altro piano che dicevamo, che si sta rivelando altrettanto decisivo – la liberazione dalle dittature figlie del panarabismo – gli Usa hanno detto fate vobis, Democratici e Repubblicani. La "primavera araba" è rimasta orfana dell’America e si è dovuta accontentare di una Europa come al solito divisa.

Obama e Hillary Clinton hanno continuato fino a l’ultimo a tenere aperti dei canali di dialogo con i vari autocrati e dittatori che cercano di soffocare nel sangue le rivolte, come stanno facendo con il boia Assad, e nonostante gli strepiti Obama finora non ha fatto quasi nulla che possa se non costringere almeno incentivare Assad ad andarsene. Una pantomima che va in scena da parecchio tempo anche con l’Iran di Khamenei e di Ahmadinejad, almeno dai giorni gloriosi della "mano tesa".

Il Presidente democratico  si è chiamato fuori (mediaticamente) anche dalla impresa libica, nonostante i bei dollari spesi in missili e caccia impegnati nella guerra a Gheddafi; prima di andarsene, il segretario di stato Bob Gates ha fatto una sonora lavata di capo agli europei, denunciando l’inadeguatezza del contributo fornito alla NATO nel conflitto, ed effettivamente va dato atto al presidente francese Sarkozy di essere stato lui a fare pressioni sui ribelli delle montagne attorno a Tripoli (i berberi, i dissidenti che avevano abbandonato la capitale dopo l’inizio della rivolta, gli oppositori storici di Gheddafi, eccetera) affinché dessero la spallata al regime, molto più di quanto non abbia fatto la NATO con l’avanzata del CNT da Bengasi. Non dimentichiamoci cos’è accaduto a Misurata, dove si è parlato, esagerando, di nuova Sarajevo. Da quelle parti, probabilmente si combatte ancora, nonostante la copertura aerea dell’Alleanza Atlantica. Sirte, la città di Gheddafi, resiste. E il vescovo Martinelli avverte: "Per me Tripoli non è stata conquistata dai ribelli". I lealisti asserragliati al Rixos acconsentono.

E’ l’ora delle risposte certe ma Obama è il Presidente dell’incertezza, del temporeggiare in attesa del cambiamento, a meno che non faccia comodo intervenire per qualche interesse contingente. Mentre la guardia presidenziale del Colonnello si arrendeva, il Presidente commentava l’accaduto dal suo ritiro estivo a Marta’s Vineyard, augurando ai libici buona fortuna.

In fondo, il realismo è una cosa magnifica fino a quando non sconfina nel cinismo e nel suo associato logico, il menefreghismo. E’ scontato che i Fratelli Musulmani vinceranno le elezioni in Egitto, che la Libia si sgretolerà tra i vari clan ribelli, che in Siria saliranno al potere i salafiti, se ce ne stiamo languidamente con le mani in mano a pontificare sul fallimento della primavera araba, senza intervenire direttamente ma solo di sguincio in processi storici che pure ci riguardano da vicino, considerando cos’è accaduto dieci anni fa a New York.

Il mondo è strano. Un presidente che tutti considerano un povero idiota, Bush, si è rivelato invece un forte comandante in capo capace di ridare sicurezza agli Usa e di sprigionare il "sacro fuoco" della democrazia nel Grande Medio Oriente (i libri di storia parlano un’altra lingua ma si sa che su Bush è già calata la damnatio memoriae). Il suo successore, che tutti credevano un genio, si è dimostrato invece un diligente burocrate che pensa solo agli affari suoi e alla sacrosanta difesa dell’interesse nazionale, nulla più di questo, un "lavorare dietro le linee" dei suoi nemici che giustamente Charles Krauthammer irrideva sul Post di ieri, pensando che adesso Obama raccoglierà anche il successo della "vittoria" in Libia. Ma non fa niente, perché i popoli arabi hanno capito. Piano piano, Gheddafi, Assad, e alla fine l’Iran.

Non lamentiamoci se quello che verrà dopo la primavera sarà un brutto inverno, non ci siamo certo tolti un rene affinché sbocciasse qualcos’altro. La fiaccola è sempre accesa, il desiderio di libertà non è prerogativa solo di una parte del mondo, ma se non c’è coesione – una determinazione morale – la lotta contro la tirannide si riduce semplicemente a quante azioni ha guadagnato in borsa l’ENI l’altro giorno, oppure alle previsioni d’intelligence di un accurato report della agenzia Stratfor. Che non è poco, ma non basta. Così il realismo torna ad essere una comoda via di fuga, davanti a "narrazioni" che almeno hanno avuto il potere di scaldare i cuori, rianimare le coscienze, indicare una strada per l’azione.