Per capire da dove viene e dove va la crisi italiana basta leggere Machiavelli
19 Ottobre 2011
Per inquadrare la crisi del sistema politico italiano in una prospettiva di più ampio respiro, evitando di schiacciarsi su di una poco confortante attualità, si può fare ricorso a un classico della politica, anzi al classico per antonomasia; quello che da alcuni secoli è considerato il breviario essenziale per la comprensione dei fenomeni politici, il Principe di Machiavelli. Al paragrafo quinto del capitolo sesto (De’ principati nuovi che s’acquistano con l’arme proprie e virtuosamente), infatti, si trova una spiegazione succinta ed efficace del perché la transizione italiana duri da così tanto tempo e sia sempre a rischio. La cosa più difficile, osserva il segretario fiorentino, è quella di "introdurre nuovi ordini"; questo "perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tiepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura degli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità degli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggano una ferma esperienza".
In queste parole sono riassunte molte delle difficoltà incontrate in questi anni. La fine della prima repubblica ha significato anche la fine di un ordine stabile in cui la contesa politica era regolata da un insieme di consuetudini e usi consolidati. Certo, il sistema era invecchiato e non rispondeva più ai mutamenti della società, ma aveva assicurato una certa stabilità al paese, tenendo a freno una malattia storica di lungo periodo come il trasformismo e contenendo in argini rassicuranti i partiti antisistema presenti sulla destra e (soprattutto) sulla sinistra dello schieramento politico. Dopo il crollo del vecchio regime, però, sarebbe stato necessario porre mano a una riforma delle istituzioni che fosse in grado di ridare funzionalità al sistema. Tuttavia per introdurre questi “nuovi ordini” non è solo mancato un disegno coerente, ma ci sono state molte resistenze. Anzitutto va ricordato che tra il 1992 ed il 1993 non c’è stato un azzeramento assoluto, ma lo scardinamento progressivo di un ordine sclerotizzato.
In mezzo a tante macerie sono rimasti in piedi parecchi edifici ancora perfettamente agibili. Questo ha comportato l’impossibilità di operare una riscrittura completa del patto politico. Così i fautori dei “nuovi ordini” hanno dovuto procedere a tentoni e, soprattutto, in modo non lineare. In particolare, a impedire una marcia più spedita ostavano fattori culturali e interessi consolidati. Da un lato occorre considerare la sostanziale estraneità del ceto politico residuo ad una democrazia dell’alternanza, dove il voto degli elettori decide quale sarà il governo della successiva legislatura. Una simile concezione faceva a pugni con l’humus in cui quel ceto politico era cresciuto e si era educato; un humus nel quale i governi deboli, una democrazia mediata dalle segreterie dei partiti, la contrattazione permanente tra correnti e partiti erano gli ingredienti costitutivi della vita pubblica. Peraltro questa concrezione culturale non era disancorata, ma trovava un forte contrappeso pratico negli interessi costituiti che lucravano sui molti rivoli parassitari e le innumerevoli intermediazioni corporative offerte da quella democrazia partitocratica e assembleare.
A questa minoranza consistente e, soprattutto, influente si è potuto contrapporre ben poco. Il nuovo ordine politico, infatti, era basato su di un bricolage empirico e malfermo: una legge elettorale buona solo in parte (e questo vale tanto per il matterellum che per il porcellum), un rafforzamento di fatto dell’esecutivo grazie alla sua legittimazione popolare, ma non codificato da nessuna disposizione costituzionale. Per usare la terminologia machiavelliana si può dire che in questi anni è sempre mancata la “ferma esperienza” dei vantaggi di una democrazia dell’alternanza. Così, dopo tanti anni di chiacchiere e tante occasioni perdute, il quadro politico è costantemente a rischio di sfarinamento, mentre ventate di antipolitica o di giustizialismo attraversano una parte dell’opinione senza contribuire per nulla all’intelligenza degli avvenimenti.
Anche in prospettiva i margini di manovra a favore della “ferma esperienza” appaiono ridotti. Il nuovo referendum elettorale offre forse la possibilità contrattare una legge elettorale più trasparente e, soprattutto, più selettiva. Ma per farlo occorre essere determinati e non cedere al ricatto degli alleati (attuali o potenziali). Sul piano più direttamente politico è necessario che il Popolo della Libertà affronti la prova del cambio di leadership e di nuove elezioni (che appaiono probabili) mantenendo una sostanziale unità d’intenti. In sostanza all’orizzonte non ci sono prospettive eccessivamente rosee; c’è da auspicare, allora, che l’anima del segretario fiorentino assista la dirigenza del PdL.