Il centrodestra si dice liberale ma rovina l’Italia e uccide le speranze
20 Luglio 2011
Come dobbiamo valutare questi ultimi vent’anni, che la storia rubricherà come “età berlusconiana”? Quale giudizio può esprimere, chi è liberale, dinanzi alle poche sagge decisioni e ai molti gravi errori che hanno segnato la politica del centro-destra dal 1993 a oggi? Ha ragione Antonio Martino quando, nella sostanza, esprime tutta l’amarezza di chi si sente tradito da una politica cinica e senza ideali che ha usato il liberalismo come una bandiera utile a prendere voti per poi, nella sostanza, fare ricorso al solito armamentario della spesa pubblica, della regolazione moralistica e della lottizzazione partitocratica ogni volta che si è trattato di passare dalle parole ai fatti? Oppure si tratta di un giudizio ingeneroso? Non è stato forse il rigore finanziario di Giulio Tremonti, come sostiene il super-ministro dell’Economia, a tenere l’Italia al riparo dal disastro finanziario globale degli ultimi anni?
Penso sia necessario esprimere un giudizio molto negativo nei riguardi di questa stagione della storia italiana. Ha in parte ragione chi trova qualche attenuante dinanzi alle mancate privatizzazioni, al permanere di ordini e protezioni, al costante dilatarsi della pressione fiscale e della spesa pubblica. In Italia i sindacati sono quello che sono, i giornalisti lo stesso, idem gli imprenditori e i professionisti, e la maggioranza di centro-destra è il risultato di molti innesti politici: un’area post-fascista, una corposa eredità democristiana, molti socialisti e socialdemocratici, una Lega sempre più protezionista e populista, un coagulo di interessi affaristici e logiche tecnocratiche. Con questa Armata Brancaleone non sarebbe stato facile realizzare una rivoluzione thatcheriana.
Questo, però, descrive solo una parte della realtà. È del tutto evidente che in questo ventennio non abbiamo avuto progetti liberali bloccati da ogni sorta di resistenza e quindi falliti. A ben guardare, nessuno ha mai tentato un’autentica rivoluzione liberale e non può certo essere considerato tale il progetto di arrivare (fra tre anni, e quindi scaricando impegni e oneri sui governi a venire) a quel pareggio di bilancio che, ad ogni modo, non cancellerà un debito che ha ormai superato il 120% del Pil.
Ora che l’Italia è sull’orlo dell’abisso e che gli investitori internazionali mostrano di non credere nei bond italiani e più in generale nell’affidabilità del Paese, è chiaro che si deve esprimere un giudizio durissimo sugli attori politici di ogni colore che ci hanno condotto in questo disastro. Le responsabilità sono diffuse, ma questo significa che siano egualmente ripartite.
Il vero guaio è che le accuse che Martino rivolge al centro-destra denotano essenzialmente una cosa: che è del tutto mancata la volontà – fatto salvo qualche limitato soggetto e settore – di far crescere una vera cultura liberale, che allargasse gli spazi del mercato, della proprietà privata, della responsabilità.
In più di un’occasione, anche nei mesi scorsi e nelle passate settimane, Silvio Berlusconi in prima persona è tornato a ripetere promesse e impegni che già aveva preso vent’anni fa. Ha perfino parlato della necessità di una riforma fiscale che abbassi le aliquote, sostanzialmente ripetendo parole già pronunciate più volte. C’è perfino qualcosa di patetico in tutto ciò, ma è chiaro come questo discenda dall’incapacità dell’intero mondo moderato di tradurre la retorica in azione, le parole in fatti.
In tal senso, quello che alcuni acuti commentatori hanno individuato essere una delle più positive novità del berlusconismo (la nascita di un linguaggio nuovo, che non demonizzava più l’impresa e anzi esaltava l’autonomia della società civile e del mercato) rischia di essere uno tra gli aspetti più negativi. Se l’attuale maggioranza si fosse presentato come apertamente anti-mercatista, proprio come fa Tremonti, nel disastro attuale sarebbe più facile proporre le ricette di un vero mercato affrancato da lottizzazione e regolazione. Al contrario, Pdl e Lega hanno invece voluto utilizzare a più riprese il linguaggio del liberalismo, salvo poi muoversi nella direzione opposta.
In questo senso, il berlusconismo è stato un grande equivoco: come lo fu il giolittismo grosso modo un secolo fa. E se il paradosso dello statista piemontese è consistito nel presentarsi quale liberale proprio mentre statizzava ferrovie, welfare e assicurazioni (o quando invadeva la Libia), il centro-destra ci fatto credere di voler liberalizzare l’Italia proprio mentre inventava la Banca del Sud e moltiplicava controlli e tagliole ai danni dei produttori: a partire dallo “spesometro”.
Una maggioranza che si dice socialista e che operi in termini socialisti può rovinare un Paese, ma almeno ci lascia la speranza di un’alternativa. Ma se quella coalizione, pur agendo in tal modo, pretende pure di essere liberale, quale speranza può restare di dirigersi verso un vero cambiamento?